Il modo in cui il Quirinale sta gestendo la crisi non è ineccepibile. E’ vero che, a differenza della Prima Repubblica, dal 1992 in Italia è scattato il “culto della personalità” del Capo dello Stato e non esistono più commenti critici, ma questa situazione non ha precedenti nella storia dell’Italia repubblicana: a due mesi e mezzo dalle elezioni non è stato dato alcun incarico. 



Ci sono stati — è vero — due “incarichi esplorativi”, ma anch’essi molto originali. Più volte in passato i presidenti di Camera e Senato hanno svolto missioni per il Capo dello Stato, ma mai si era visto che fossero chiamati — prima l’uno e subito dopo l’altro — vincolandoli a verificare in tempi ristretti, ognuno separatamente, l’esistenza di una diversa formula di governo e cioè trattando questi vertici istituzionali come esponenti non super partes, ma platealmente di parte: la Casellati per il centro-destra e Fico per il M5s. 



Adesso ci troviamo nell’inedita — e forse di dubbia costituzionalità — situazione in cui da settimane si svolgono trattative senza presidente incaricato per far firmare a due leader di partito un “contratto di governo” con una svolta radicale nei rapporti con l’Unione Europea e la Nato e che dopo essere stato sottoposto a votazioni on line e per le strade sarà portato al Presidente della Repubblica per fargli finalmente dare l’incarico a qualcuno che, a sua volta, nelle vesti di presidente del Consiglio lo porti in Parlamento.

Questo voto di ratifica tra gli iscritti del testo del “contratto” è di fatto offensivo sul piano istituzionale: è come se dopo le elezioni del 4 marzo fosse necessario recarsi al Quirinale con una nuova iniezione di legittimità da parte di un voto di partito. Il paragone con la Germania non ha alcun fondamento. I socialisti tedeschi erano fortemente divisi sul governo con la Merkel e la votazione fu l’atto conclusivo di un congresso straordinario dove si scontrarono posizioni opposte e si cambiò anche il leader del partito. Nel nostro caso non c’era alcun dissenso e non c’è stato alcun confronto interno prima della votazione. La Lega e il M5s sono infatti partiti più monolitici del Pci di Togliatti (con la nota dialettica tra Amendola e Ingrao dove non mancavano aperte critiche al leader del partito). A differenza dei socialisti tedeschi, Salvini e Di Maio hanno inscenato con esito scontato due plebisciti senza alcun dibattito. 



Sergio Mattarella aveva non solo tutte le ragioni, ma tutti i poteri (e doveri) affinché dopo le elezioni le trattative fossero condotte da un presidente incaricato evitando questa sceneggiata di autogestione extraparlamentare per platea mediatica. I “quirinalisti” sussurrano che il presidente nelle prossime ore si appresta a uscire dal ruolo di “testimone muto”. Vediamo.

Venendo al merito, stupisce lo stupore per i contenuti del “contratto”. Tutta la campagna elettorale è stata da tutti svolta come gara di promesse di elargizioni senza copertura finanziaria. 

I punti di forza del governo che si delinea tra M5s e Lega sono essenzialmente i punti di debolezza dei suoi principali critici: opposizione parlamentare e Commissione di Bruxelles.

Mentre il centrodestra è sfasciato e Matteo Salvini lascia libera la leadership per il ricandidabile Berlusconi, nel Pd prosegue la “guerra civile” tra un Renzi che nella sconfitta del 4 marzo vede solo colpe dei suoi oppositori e i postcomunisti che per “ri-bipolizzare” puntano a un governo con Di Maio. 

Ma l’aspetto più preoccupante è come l’Unione Europea sta andando al rinnovo del suo Parlamento. Le elezioni del 2014 erano già state un campanello d’allarme, ma sia Renzi sia Hollande lasciarono mani libere alla Merkel che impose i suoi candidati in tutti i vertici: Commissione, Eurogruppo, Consiglio d’Europa. 

Ora, al momento del rinnovo del Parlamento europeo, il bilancio di questi cinque anni di guida tedesca agli occhi delle platee elettorali dei 27 paesi è un generale peggioramento: un’Unione Europea che ha bloccato il processo di integrazione, è in ordine sparso sull’immigrazione, ha perso la Gran Bretagna, ha in corso un braccio di ferro con la Russia ed è in rotta di collisione con gli Stati Uniti. In aggiunta: la difesa europea è al tempo stesso una necessità e un mistero e con Draghi in uscita dalla Bce non è per nulla chiaro quale sarà la prossima politica economica.

In questo quadro il nuovo governo Di Maio-Salvini può decollare senza troppa preoccupazione avendo come verifica e traguardo le elezioni europee. Si tratta di solo sei mesi con un controllo europeo molto allentato, dato che i commissari di Bruxelles sono di fatto dimissionari e in cui da Palazzo Chigi ci si può limitare a fare annunci atteggiandosi a “laboratorio” di verifiche e “cantiere” di progetti. A Lega e M5s basta arrivare alla vigilia delle elezioni europee dando l’impressione di essere alla vigilia di concretizzare tutte le promesse, dalla flat tax al reddito di cittadinanza. Le uniche cose concrete da fare nell’immediato sono nomine.