Siamo ormai chiaramente in presenza di un tentativo — da parte di M5s e Lega — di modificare profondamente, in una sua parte, la Costituzione. Niente di male, se non per le vedove inconsolabili della sua sacralità.

La sola obiezione è che il riformismo istituzionale, se non vuole ridursi a giacobinismo, esige di essere svolto all’interno di un processo decisionale (cioè delle procedure). Non è un’ossessione di giuristi come Sabino Cassese, ma un preciso vincolo, quindi un’esigenza prevista dalla nostra Carta.



Per questo Di Maio e Salvini sono un pericolo per la democrazia repubblicana. Sergio Mattarella deve fermarli. Non importa se lo farà e anche tortuosamente in ritardo, ostacolando l’incarico, accettato con riserva, assegnato al professor Giuseppe Conte. Sarebbe stato necessario intestare l’ufficio di premier a Di Maio: al contrario di Conte è un politico di professione e rispetto a Salvini dispone della maggioranza dei voti dell’elettorato.



L’importante è cercare di arginare i tentativi di alterare di fatto gli equilibri istituzionali. La proclamata politica del cambiamento è, in realtà, una politica di restaurazione, cioè sul piano istituzionale rischia di avere una valenza reazionaria. L’obiettivo dei due nuovi esponenti della partitocrazia sovranista (o populista) è ormai evidentissimo, anche se non proclamato: trasformare il presidente del Consiglio in una figura simbolica, un reperto archeologico, con funzioni da puro e semplice esecutore. Il premier sarebbe tenuto a eseguire l’applicazione del programma (assai generico e contraddittorio perché frutto delle mediazioni tra due forze inconciliabili come Cinque stelle e Lega). Perciò gli si attribuisce un mero ruolo di passacarte, di cinghia di trasmissione delle volontà dei principali capi-bastone elettorali.



A capire perfettamente la lezione dei nuovi “barbari” è il nuovo candidato premier, il professor Giuseppe Conte. Con il suo silenzio ha accreditato l’idea (falsa) che la nomina del presidente del Consiglio sia una funzione di Di Maio e Salvini e non del capo dello Stato. E, in secondo luogo, non ha saputo rivendicare i reali poteri che la Costituzione attribuisce al capo del governo. Non sono quelli di un cherubino, come ritengono o auspicano i suoi grandi elettori.

Per questa ragione, Mattarella dovrebbe respingere la proposta di confermare, dopo che avrà sciolto la riserva, la premiership al professor Conte. Finora, a meno che non cambi registro nei prossimi giorni mettendo dei paletti alle pratiche invasive dei suoi sostenitori, si è comportato come un personaggio bon a tout faire, cioè reverente nei confronti di Di Maio e Salvini.

Secondo l’articolo 95 della Costituzione, il suo compito dovrebbe essere assai diverso: “Il presidente del Consiglio dei ministri dirige la politica generale del governo e ne è responsabile. Mantiene l’unità di indirizzo politico ed amministrativo, promuovendo e coordinando l’attività dei ministri”. Dietro questo articolo c’è qualcosa di più della sindrome del tiranno (che Giuliano Amato ha più volte evocato). C’è anche un contesto storico che risale alla fine della Prima guerra mondiale. Mi riferisco alla pubblicazione nel 1918 (e, più estesamente, nel 1936, presso l’editore Grasset, durante il Fronte popolare francese) del bel saggio La Reforme gouvernementale di Leon Blum (ancora non tradotto in italiano). Contro l’ondata di anti-parlamentarismo scatenatasi in mezza Europa, il consigliere di Stato di sinistra francese illustra le trasformazioni istituzionali seguite alla fine della guerra.

In primo luogo, a imporsi è il primato del governo nell’attività legislativa. Ai suoi uffici è affidato di elaborare e proporre le leggi al Parlamento (che mantiene una propria autonoma iniziativa). Tra i due organi si crea qualcosa di simile al fordismo nelle fabbriche industriali, cioè un ingranaggio — sarebbero le funzioni del premier — che garantisce proprio quanto Di Maio e Salvini vorrebbero togliere al nostro futuro premier: cioè uno stato di fusione e dipendenza reciproca, in base alla quale egli assume i poteri di un uomo “forte”. Dirige, infatti, l’attività dei ministri, dell’amministrazione e anche del Parlamento.

Blum usa per la prima volta un lessico come “lavoro del governo”, che è stato studiato da uno dei nostri migliori storici dell’amministrazione, il professor Guido Melis: “In uno Stato democratico la sovranità appartiene, in teoria, al popolo e alle assemblee elette che lo rappresentano. In pratica, essa è delegata ad un uomo. La necessità le veut ainsi. Ha bisogno di un capo del governo come se avesse bisogno di un capo dell’industria”. Il “lavoro collettivo” svolto dal premier assomiglia a quello di un monarca (“temporaneo e costantemente revocabile”). Fin quando avesse avuto la fiducia del Parlamento avrebbe dovuto esercitare “la totalità del potere esecutivo, riunendo e incarnando in sé tutte le forze vive della nazione”.

Dunque, secondo Blum, “il lavoro del governo” implicava per il presidente del Consiglio di adottare “una direzione unica”, cioè di essere un potere “forte”: “la missione, il compito necessario di questo capo è di mettere ordine nell’insieme dell’attività governativa o, in termini più precisi, di adattare l’amministrazione a una politica, il che implica la direzione effettiva del lavoro politico come del lavoro amministrativo”.

Ebbene, esattamente cento anni dopo Blum, arrivano Di Maio e Salvini a cercare di cambiare le carte in tavola. Mattarella deve far presente, con tutti i mezzi che gli sono consentiti dal suo ruolo di Capo dello Stato, che il premier è un attore, un protagonista dell’attività del governo. E non uno sciuscià dei partiti e dei movimenti populisti-sovranisti.