Sembra un romanzo d’appendice, un feuilleton come dicono i francesi, la storia di questi primi cinque mesi del 2018.
La sicumera degli analisti d’accatto di questa Italia prevedeva un Parlamento dove il Pd di Matteo Renzi restasse il baricentro, magari con la figura di Paolo Gentiloni promosso ancora direttore d’orchestra a Palazzo Chigi, e “onorevoli” alleanze con frattaglie del centrodestra in smobilitazione e della stessa Forza Italia del Cavaliere di Arcore.
Uno schemino da politici della mutua che si dimenticavano l’impoverimento costante del Paese, la disoccupazione, la precarietà, la mancata crescita, l’aumento a dismisura delle diseguaglianze sociali e il “rancore”, illustrato con lucidità dal Rapporto del Censis di Giuseppe De Rita, che ammoniva: “Tutta la politica italiana è mossa dal rancore”.
Rispetto allo schema didascalico dei “sicuri”, qualcuno in quel momento forse più lucido, contrapponeva un presente e un futuro contrassegnato da una grande confusione, che infastidiva i teorici della continuità nel rancore e nella sostanziale tenuta del sistema.
Poi è arrivata la tarda sera del 4 marzo, non più con i sondaggi stravaganti, ma con le proiezioni sui dati reali. E contemporaneamente è arrivata la gelata oppure la “tempesta perfetta”, che ha aggiunto alla confusione l’incertezza, un mix terribile in politica e in un contesto sociale abbastanza provato da un quarto di secolo di illusioni e disillusioni continue.
Una rapida analisi del risultati elettorali, di fronte allo smarrimento dei “commentatori tifosi” dei media di ogni tipo, metteva in luce che si era riprodotto un mostro mitologico che poteva essere paragonato all’ircocervo, già citato da Benedetto Croce e da George Orwell. Bastava un rapido colpo d’occhio per vedere che c’era un maggioranza di votanti sbrigativamente chiamati “populisti” o “anti-sistema”, cioè pentastellati e leghisti, che non avevano nemmeno idee similari ma avevano la maggioranza in Parlamento e che inoltre erano riusciti a spaccare l’Italia in due.
Nessuna analisi a freddo, razionale, o almeno un esame di coscienza che poteva facilmente collegare la nascita dell’ircocervo alla miope politica di Berlino, Parigi, Bruxelles e Roma. Si reagiva con scambi di accuse reciproche e concitazione, inaugurando una terza fase del romanzo d’appendice: dopo la confusione, dopo l’incertezza è arriva la turbolenza, paragonabile alla pallina di un flipper impazzito che tocca Parlamento, gruppi politici e persino il Quirinale.
Il rischio è che l’Italia, nella morsa di confusione, incertezza e turbolenza, possa imboccare la strada dell’agonia, di un lento suicidio, temuto da tanto tempo e previsto da molti osservatori e vecchi politici. L’ultima speranza può forse essere un colpo di mano di Black Jack dove si azzecca un “21”, mentre il banco berlinese o bruxellese sballa di brutto.
Ma intanto anche l’ircocervo non decolla per l’opposizione del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, alla nomina del ministro dell’economia, e la vicenda diventa drammatica.
La politica economica — E’ ormai chiaro a (quasi) tutti che gli aspetti di grande divisione e di contrapposizione in questi ultimi venticinque anni sono state le scelte sulla politica economica. Tra globalizzazione forzata, finanziarizzazione ottusa dell’economia, più libertà ai movimenti dei capitali che alle stesse persone, ruolo delle banche dedite alla “felicità” degli azionisti e caduta della separazione tra banche d’affari e banche commerciali, si è ritornati a un capitalismo alla Jean Baptiste Say e alla Jeremy Bentham. I “rinnovatori” di queste dottrine del passato come Milton Friedman e Friedrich von Hayek hanno cancellato la “domanda aggregata” di John Maynard Keynes, il famoso moltiplicatore della crescita e la perfettibilità del capitalismo attraverso l’intervento statale nelle crisi cicliche.
L’ottusa finanziarizzazione, che ha poi portato alla crisi del 2007, ha provocato la solita risposta deflazionistica dell’ordoliberismo, che ha impoverito interi strati sociali, portando scompiglio in tutte le democrazie occidentali e provocando risultati elettorali da brivido.
Se in Italia i cosiddetti “populisti” hanno la maggioranza, la Grecia è come uno “Stato morto”; la Spagna sembra una polveriera con impulsi secessionisti non solo in Catalogna ma anche in altre regioni e sta affrontando le terze elezioni generali in due anni; nella Francia dell'”enfant prodige” Emmanuele Macron, l’Eliseo perde colpi in popolarità e i sindacati minacciano quasi il blocco del Paese di fronte alla promessa riforma del lavoro del governo: nella stessa Germania della “grande bottegaia” i partiti tradizionali sono ai minimi storici, ma nelle zone dell’Est, un tempo comunista, si afferma un movimento neonazista che ha raggiunto il 22 per cento. C’è tranquillità soprattutto in Lussemburgo (accipicchia!) dove è concentrato il più alto numero di ragionieri dell’elusione fiscale.
Ma nulla scalfisce le certezze del “pensiero unico” neoliberista. In Italia dal 2011 al 2013, l’accoppiata Monti-Fornero ha sconvolto l’assetto sociale e provocato un’impennata del debito pubblico di 12 punti. Un uppercut micidiale al Paese che doveva essere rimesso in carreggiata per la crescita.
Il bilancio del liberismo italiano è da delirio. Ha cominciato con una valanga di privatizzazioni nel 1992, regalando plusvalenze stellari a personaggi come De Benedetti e Benetton, ha elargito il 6 per cento di commissione alla banche anglosassoni,. che hanno curato la grande svendita, e soprattutto ha impoverito irrimediabilmente il patrimonio industriale italiano, che era centrato sull’Iri e sull’Eni di Enrico Mattei, perché i registi della grandi scelte economiche del dopoguerra (quelli che avevano fatto grande l’Italia) conoscevano bene la fragilità del nostro capitalismo, da Raffaele Mattioli a Enrico Cuccia, fino all’impietosa condanna di Giorgio Amendola: “Abbiamo una borghesia stracciona”.
Di questo liberismo italiano ci restano due libri comici: Il liberismo è di sinistra dell’accoppiata Alberto Alesina e Francesco Giavazzi e L’austerità fa crescere della signora Bini Smaghi, alias Veronica De Romanis. Il risultato di questa imponente svolta è sotto gli occhi di tutti ed è stata definita dal premio Nobel Paul Krugman “La notte degli Alesina viventi”. Definizione che in Italia non viene mai citata, per qualche comprensibile ragione.
Rispetto a tutta questa tragedia, la questione sull’ingresso nel governo di Paolo Savona, è apparsa da una parte e dall’altra come una rissa da bar sport.
Cultura, politica, istituzioni — La svolta neoliberista e il pensiero unico ultraliberista si sono affermati in Italia, dove c’è un contesto culturale, politico e istituzionale che è avvolto dall’oblio e da un’ipocrisia radicata. Le giravolte di questo Paese sono impensabili. Si pensi che nel 1976 il direttore del Corriere della Sera, il sedicente liberale Piero Ottone, scriveva che “occorre riconoscere che il marxismo ha vinto su tutta la linea”. Il Pci era al massimo dell’espansione elettorale e Umberto Eco, anche lui sul Corriere, poteva scrivere: “A cento anni e passa dalla sua prima proposta, la visione marxista della società si sta imponendo come un valore acquisito”.
E’ vero che il mondo cambia e va anche avanti, ma che oggi non si possa più neppure nominare Marx appare un poco strano. Così come si deve dimenticare Keynes. Oggi il dibattito culturale nel Paese si svolge tra liti a ceffoni metaforici, tra Ernesto Galli della Loggia e Giuliano Ferrara, con il primo che dice che “questo è un Paese che deve essere rifondato” e il secondo che risponde di essere sconsolato perché la vera “morte della patria” non è arrivata, come si diceva un tempo, con l’8 settembre 1943, ma con la tragedia di Moro, e ora non resta né la maggioranza né l’opposizione. Ripetizione di un concetto già espresso da Giuseppe Saragat. Ma è inutile ricordarlo.
Nel frattempo ci sono le funamboliche invenzioni del “cavalier servente” dei nuovi “poteri deboli”, Paolo Mieli, che ascolta nel 2007 un discorso a Confindustria del “noto intellettuale” Luca di Montezemolo che definisce i politici “casta” e subito ordina un libro ai due suoi “rabicani” che diventa un best-seller, La casta, che è la seconda demonizzazione della classe politica italiana.
Mieli dice anche altre stravaganze sulla svolta di Salerno, sull’indispensabilità per la libertà d’Europa della battaglia di Stalingrado, dimenticandosi forse la battaglia d’Inghilterra, lo sbarco in Normandia, l’arrivo degli americani (che neppure Togliatti osava dimenticare). Ma Mieli è stato in fondo la buca delle lettere della procura di Milano, il feudo che ha destabilizzato la Prima Repubblica, secondo criteri che farebbero inorridire Montesquieu, Tocqueville e il nostro Piero Calamandrei che si era battito come un leone, nei lavori della Costituente, per la separazione delle carriere, al fine di evitare gli abusi dei pm che avvengono quasi solo in questo Paese, per un compromesso costituzionale del 1946, che non ha varato appunto la separazione delle carriere.
L’azione della procura di Milano nel 1992 causò 47 suicidi, la cancellazione di cinque partiti democratici e migliaia di accusati e indiziati di reato che poi vennero assolti, dopo anni. Personalmente ricordiamo il caso di Lorenzo Necci, il padre dell’alta velocità, amministratore delegato delle Ferrovie dello Stato. Venne prelevato nella sua casa di campagna, scaraventato in una cella di isolamento a La Spezia, accusato di 40 reati e successivamente assolto per 40 volte.
Uno scandalo. E forse si dovrebbe ricordare anche il grande scrittore Roberto Saviano, che ha recentemente ricordato la tragedia di Enzo Tortora addebitandola soprattutto all’invidia insinuatasi nel costume italiano. Ma il pubblico ministero Diego Marmo, implacabile accusatore di Tortora, era un magistrato inquirente (che fu promosso poi in Cassazione) o un invidioso cronico?
Ci sono altri due aspetti della cultura politica e del contesto istituzionale italiano.
Il primo va letto in un libro di Massimo Salvadori del 1999 La sinistra nella storia italiana. Che cosa sostiene Salvadori? Che per ben 80 anni, a partire dal congresso del Psi del 1912, passando dalla fondazione del Pci nel 1921, fino alla fondazione del Partito democratico della sinistra (1999) è sempre prevalso il massimalismo sul riformismo.
Riformismo che veniva considerato un disvalore nella sinistra maggioritaria (solo adesso tutti si sono trasformati in riformisti) e che fu difeso da Turati, Nenni, Saragat, da un comunista come Amendola e infine Craxi, che si rifece a Proudhon e a Eduard Bernstein, ottenendo in cambio il famoso lancio di monetine davanti al suo albergo romano. Craxi muore in Tunisia, da esule, e nonostante le accuse della procura di Milano il governo italiano vuole che abbia, nella Cattedrale di Tunisi, un funerale d’onore di Stato. Una farsa tragica.
Intanto spariscono cinque partiti democratici per finanziamento illecito, dopo un’amnistia varata nel 1989 che salva il Pci e i suoi epigoni, che cambiano nome, dai fiumi di denaro che arrivavano da una potenza nemica come l’Urss.
In più il contesto istituzionale è talmente confuso, perché, senza un’adeguata riforma della cosiddetta “Costituzione più bella del mondo”, vengono fuori tutte le contraddizioni che solo dall’articolo 90 al 95, rivelano nuovamente il “virtuoso compromesso costituzionale” nel 1946, con la guerra fredda, ma che ora deve essere riformato e non interpretato dai professori “camomilla” come Sabino Cassese, che poi ottengono quello che si sta vedendo in questi giorni.
L’inflazione degli ispettori Clouseau — Che cosa si può dire di fronte a una simile crisi se non quella del timore di una lenta agonia o di un lento suicidio dell’Italia? Qualcuno può sbrigarsela pensando a grandi complotti internazionali, a congiure giudaico-massoniche. Forse è meglio non farsi trascinare dalla fantasia, anche se indubbiamente il contesto geopolitico e gli intrecci di interesse internazionale hanno un peso rilevante.
La famosa crociera del “Britannia” del 1992, fatta alla luce del sole, rileva interessi a cui ci si doveva opporre non con gli “uomini del pendolino di Gradoli”, ma forse con ben altri personaggi politici.
Del resto, se Craxi sosteneva che la “seconda repubblica è come l’araba fenice, tutti sanno dove è ma nessuno lo dice”, Massimo Cacciari, che non aveva nulla in comune con Craxi, ha detto pochi giorni fa: “In realtà non siamo mai usciti dalla prima repubblica e stiamo ora giocando una partita con le riserve delle riserve”.
In realtà, dopo la demonizzazione della politica, il peso della finanza, il peso dei “dentisti” economisti, come li chiamava Lord Keynes, si è verificato un vuoto pneumatico, rimettendo in moto un concetto di Hegel (la storia si ripete sempre) perfezionato da Marx (la prima volta in tragedia e poi in farsa).
Paradossalmente i registi italiani di questa crisi non ci sembrano figure di primo piano, ma degli aspiranti “ispettor Clouseau”, il famoso personaggio interpretato da Peter Sellers per la regia di Blake Edwards, l’ispettore, definito “ispettor” che metteva in crisi l’intera Sureté francese confinando il suo capo in manicomio e facendolo diventare un omicida seriale. In un momento di lucida follia, quel signore che dirigeva la Sureté dirà sconsolato: “Attila, in confronto a Clouseau, era una dama di san Vincenzo”.
Consigliamo al lettore, se ha avuto la pazienza di seguire, di andare su Google, cercare il sito di Blake Edwards e poi cercare un breve filmato tratto da “Uno sparo nel buio”. C’è una partita di biliardo tra due grandi attori, George Sanders, che interpreta “monsieur Balon”, e Peter Sellers nei panni appunto di Clouseau.
Sarà irriverente, ma quella esilarante partita a biliardo è forse la metafora più impressionante della grottesca incapacità politica italiana.