Il fallimento dell’ennesima tornata di consultazioni, quelle compiute dal presidente della Repubblica e quelle dei due presidenti di Camera e Senato, apre a numerose domande: che cosa sta per succedere nei prossimi giorni? Che cosa il Paese si deve aspettare nei prossimi mesi? In caso di ulteriori fallimenti, c’è qualche rimedio a una situazione che tutti giudicano non più tollerabile a lungo? 



In premessa, una considerazione si impone. Le consultazioni fin qui condotte, le dichiarazioni fatte, i dibattiti sulla stampa e sui social, insomma: il comportamento di chi si è mosso fin qui, assumendosi la leadership del processo in forza di una presunta primazia elettorale (percentuali di seggi che in assoluto sono alte ma che non consentono di governare), ha messo in luce una sostanziale incapacità di ragionare in termini istituzionali e non solo “politici”. Tutti i leader in pectore, cioè i capi dei maggiori partiti, hanno proceduto senza tener conto del fatto che il processo in atto di formazione del governo aveva la sua fine naturale non nella semplice “composizione” del governo bensì nella sua formazione davanti al Parlamento, unico organo deputato a consentire al governo di governare, essendo a ciò legittimato dalla maggioranza dei — neoeletti — rappresentanti del popolo. Che, insomma, occorreva non tanto decidere il leader, il presidente del Consiglio, ma la compagine politica che avrebbe poi dovuto sostenere l’azione del governo, accompagnando le scelte politiche con i dovuti provvedimenti legislativi. 



Solo il presidente della Repubblica — inascoltato — aveva più volte ripetuto questo concetto senza che esso, tuttavia, entrasse davvero nel dibattito, orientandolo non tanto su un presunto e irrealistico “programma” (oggi ribattezzato contratto di coalizione, grande idea mutuata dai nostri vicini tedeschi pur in assenza di un sistema politico e istituzionale che, in quella terra, ne determina il senso e la realizzabilità) bensì sulla sua concreta realizzabilità. Ogni buon programma, infatti, deve prevedere anche le forme della sua realizzazione e, nelle democrazie parlamentari, una di queste (e forse la più importante) è la solidità della base parlamentare che la dovrebbe supportare. 

Ed è per questo che risulta peculiare il rifiuto del Movimento 5 Stelle di allearsi con la coalizione di centrodestra; comprensibilissimo sul piano politico, esso pecca di irrazionalità nell’essere incapace di arrendersi alla logica dei numeri. Strano pure il mandato ad esplorare l’ipotesi M5s-Pd senza tener conto del fatto che, grazie ad una sapiente gestione della formazione delle liste, in Parlamento il vero dominus risulta essere ancora Renzi, ovviamente non disposto a cedere l’ultimo baluardo del suo potere, ovverosia il gruppo di parlamentare eletti e a lui fedeli. Potranno Renzi e i suoi essere messi fuori gioco? E se fuori gioco oggi, quanto durerà la vittoria?

Ora si prospetta un cosiddetto “governo istituzionale”, una soluzione istituzionale ad un crisi politica dai tratti irreversibili. Poiché tutto è possibile, occorrerà capire molte cose in merito: chi il leader, quale il contenuto del mandato (riforma elettorale, bilancio, riforma costituzionale?) ma, soprattutto e ancora, quale maggioranza parlamentare lo sosterrà. E qui i numeri vanno tenuti ben presenti. Il Paese non deve essere messo nella condizione di assistere impotente ai continui fallimenti di un governo debole, preludio ineludibile a nuove elezioni. Ché, se pur venissero, non potranno essere certo il rimedio all’endemica incapacità della nostra classe politica nel suo complesso — ma soprattutto di quelli che oggi ne vogliono essere i portavoce più autorevoli — di guardare alle cose con intelligenza e con realismo.