Matteo Salvini e Luigi Di Maio hanno ripreso a randellarsi quasi fossero già in campagna elettorale, e in cuor loro probabilmente lo sono veramente, ma una pausa di riflessione forse sarebbe opportuna. Oggi il Pd metterà nero su bianco quello che si sa da domenica sera, cioè la chiusura del “forno” a 5 Stelle e il ritorno a una massiccia conflittualità. Il presidente Mattarella riaprirà le consultazioni, con molte meno frecce al proprio arco. La logica suggerisce che le opzioni politiche sono ormai esaurite: le ipotesi imperniate sui grillini sono state affondate mentre resterebbe da esplorare un governo tra centrodestra e Pd. Ma l’accordo con la sinistra è stato categoricamente escluso da Salvini fin dall’inizio. Quindi sondare il terreno su questo versante equivale a perdere altro tempo.



Mattarella pensava che procedere per esclusione fosse un modo per convincere i partiti a convergere verso un accordo per il bene del Paese. Ora, viceversa, gli animi sono più accesi di prima, gli insulti volano che è un piacere, e ricomporre appare impresa disperata. Dev’essere il presidente a indicare una strada e porre i contendenti di fronte all’alternativa: o accettate questa ipotesi o vi prendete la responsabilità di rimandare il Paese al voto, con la conseguenza dell’esercizio provvisorio, dell’aumento dell’Iva e di un caos ancora maggiore.



E l’ipotesi, almeno al momento, è quella di un governo istituzionale guidato da una figura esterna ai partiti, di fiducia di Mattarella, magari uscita (come lui) dalla Corte costituzionale o che si muove nell’orbita ovattata della Consulta. Il motivo è semplice: il governo avrà pochi punti nel programma, come l’approvazione della legge di stabilità e qualche provvedimento anti-povertà oltre a disinnescare le clausole di salvaguardia, ma tra essi non potrà mancare la riforma della legge elettorale. E soltanto un uomo (o una donna) estratto dalla Consulta potrebbe esprimere una sorta di “imprimatur” preventivo a una riforma del sistema di voto che altrimenti rischierebbe di essere impallinata subito dopo l’approvazione. Si è fatto il nome di Sabino Cassese, ma l’età (82 anni, uno in più di Berlusconi) non lo favorisce. Magari qualche suo allievo, e qui spicca un terzetto di strettissimi collaboratori dell’autorevole costituzionalista: Bernardo Mattarella (figlio di Sergio), Giulio Napolitano (figlio di Giorgio) e Giacinto Della Cananea (scelto da Di Maio — o suggeritogli da qualcuno — per redigere il contratto di programma). 



Alcuni dei “responsabili” hanno già un nome: Renzi e Berlusconi. Il Pd, come ha detto domenica il ministro Calenda, e Forza Italia, come Berlusconi ripete da tempo, sono pronti a sostenere un esecutivo istituzionale: una edizione rimaneggiata del governo “ampio” che Berlusconi e Renzi erano pronti a fare se fossero usciti vincenti dalle urne del 4 marzo. Qualche altro appoggio si troverà nel gruppo misto. 

La domanda aperta riguarda il comportamento di 5 Stelle e Lega. Scegliendo Della Cananea, Mattarella potrebbe fare pressione su Di Maio, visto che finora l’ha trattato con i guanti bianchi facendone il perno delle consultazioni. Ma è difficile pensare che i grillini si siedano in maggioranza con Renzi e Berlusconi. La pista Salvini è meno gradita visto che il leader leghista sta antipatico alle cancellerie europee e ai poteri atlantisti, anche se ieri ha detto di “essere umilmente a disposizione per sedersi a un tavolo con i M5s”. E basta.

Le parole suadenti della “responsabilità” potrebbero indurre i due partiti vincitori ad appoggiare un governo istituzionale di minoranza. Ma non è detto sia una strada obbligata e, soprattutto, conveniente. Lega e 5 Stelle si troverebbero imbottigliati da un governo istituzionale a stampo centrista che potrebbe durare anche più del prevedibile e metterli in difficoltà. A Salvini e Di Maio conviene dunque trovare un denominatore comune. Non per un programma o un accordo di governo, ma per non finire nella trappola istituzionale.