Le turbolenze istituzionali e politiche di questi giorni hanno dato il via ad una serie di reazioni che mirano da un lato ad attaccare in modo molto pesante le personalità coinvolte e, in particolare il Presidente della Repubblica e, dall’altro, a difendere gli assetti costituzionali vigenti, nell’intento di conservare quell’impianto di regole che, come sappiamo, sono state create proprio per realizzare un argine al dilagare incontrollato delle passioni politiche. Politica e diritto costituzionale si stanno così fronteggiando, ciascuno perseguendo i propri scopi e, in alcuni casi, anche i propri interessi concreti. Chi prevarrà? Riuscirà il diritto costituzionale — il più “politico” dei diritti — a tener fede alla propria vocazione, quella di incanalare in regole condivise l’esercizio del potere, limitandolo secondo principi di ragione? Possiamo ancora avere fiducia nelle cosiddette regole del gioco?
E’ per questo che, come punto di partenza per valutare il comportamento del Presidente della Repubblica in questo drammatico frangente, non si può non richiamare quanto la Costituzione dice in merito alla nomina dei Ministri, e cioè che “il Presidente della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio dei Ministri e, su proposta di questo, i Ministri”. La nomina dei Ministri, quindi, comporta il concorso di due volontà, che normalmente confluiscono per raggiungere lo scopo di dare un governo legittimo al Paese. Ritenere che il contrasto che si è prodotto su un nome proposto dal sistema politico per bocca del Presidente del Consiglio incaricato e sul conseguente rifiuto del Presidente di addivenire alla nomina proposta possa dare origine ad un alto tradimento o ad un attentato alla Costituzione, i due soli casi che possono portare alla messa in stato di accusa del Presidente, è un’ipotesi che si pone al di fuori di quella cornice costituzionale che regge la forma di governo italiana e, con essa, le sorti del Paese.
Stare fuori da questa cornice è, in questo momento, altamente sconsigliabile, così come problematico è confondere la legalità con l’opportunità. E, invece, i commenti che si sentono in questo momento sono incentrati non sulla legalità ma sull’opportunità del gesto del Presidente, su cui è più che legittimo discettare secondo le proprie visioni del mondo ma tenendole distinte dall’impianto istituzionale che le regge e le difende.
Sul piano del diritto costituzionale, tolto di mezzo la bandiera nera dell’impeachment, i commenti che si stanno susseguendo, quelli più seri, hanno prodotto una miriade di posizioni che vanno dalla necessità di rivedere la nostra forma di governo, ormai avviata verso una forma quasi inevitabile di presidenzialismo (da codificare mediante il cambio della Costituzione), alla difesa ad oltranza del primato del Parlamento il quale, dando la fiducia al Governo, attesta il legame delle scelte compiute tra le istituzioni e il popolo sovrano, senza che questo comporti una interferenza del Presidente, visto come organo tenuto alla più assoluta neutralità.
Tra questi due poli di riflessione sta tutto il confuso e quanto mai aggressivo dibattito politico in cui ciascuna delle forze in gioco sembra avere come preoccupazione principale il proprio futuro, soprattutto le prossime elezioni, in cui si tratterà di fare scelte quanto mai radicali a favore o contro l’Europa, a favore o contro lo stato sociale, a favore o contro la necessità di risanare le finanze pubbliche in ottemperanza a quanto chiede/pretende una indeterminata Europa, a cui pure ci legano Trattati da noi stessi sottoscritti.
Ma, se non si distingue tra i due piani, non è facile che emergano percorsi razionali e coerenti per uscire dalla crisi, con la sua faccia truce e minacciosa di crisi ad un tempo istituzionale ed economica, che sembra travolgere tutto, anche sulla spinta di uno tsumani mediatico ormai divenuto irrefrenabile. La confusione, in altre parole, fa sì che anche i più che necessari richiami alla moderazione vengano letti da più parti come una difesa dello status quo, dei poteri forti, delle ingerenze degli Stati europei rispetto alle politiche nazionali da cui guardarsi per difendere la sovranità nazionale. Eppure non sarebbe impossibile ricordare che, se si è di fronte a fenomeni nuovi, sono forme nuove che vanno ricercate. Purtroppo questo richiamo si perde nel rumore della folla. Sarebbe invece importante che esso venga colto e da esso si riparta per ridare stabilità alle istituzioni e alle persone che tentano, pur con tutti i loro limiti, di operare per la loro rinascita.