In un’intervista al Sussidiario del 30 maggio, Luciano Violante ha auspicato la costituzione di un “raggruppamento repubblicano […] che si opponga al tentativo di schierare il popolo contro la Costituzione”. Credo che simili appelli ai valori democratici del nostro paese non sortiscano altro effetto che scavare ulteriormente l’abisso che separa il cosiddetto fronte populista dai partiti democratici, a tutto vantaggio del primo piuttosto che dei secondi.
La continua demonizzazione del movimento populista da parte dei partiti tradizionali non pare che in questi due mesi abbia infatti raggiunto il suo scopo. L’origine sta nella mancata comprensione del fenomeno populista in quanto movimento — come amano definirsi i 5 Stelle — e non in quanto partito. Un movimento raccoglie consensi su poche esigenze immediatamente percepite e condivise (immigrazione, crisi ecc.), senza mostrare la preoccupazione per una visione globale della politica. A differenza di un partito, che dovrebbe farsi carico di una rappresentanza trasversale alla geografia e alla società di un paese, in forza di una proposta globale capace di far sintesi tra le sue diverse problematiche. Di per sé non vi dovrebbe essere opposizione tra partiti e movimenti, ma una sana tensione, dove la capacità del partito si dimostra nell’interpretare e far proprie le esigenze che vengono dai movimenti. Quando si giunge alla contrapposizione tra i due, si è prossimi al cambio di sistema, se non alla rivoluzione.
Ritorniamo allo scenario prospettato da Violante, che è propriamente quello dello scontro tra partiti repubblicani da una parte e fronte populista dall’altra. Nel momento in cui al fronte populista viene riconosciuto lo statuto di partito, si avrà la contrapposizione di due parti che saranno percepite rispettivamente come il vecchio che resiste e il nuovo che cambia. Facile intuire chi avrà la meglio. I richiami europeisti, repubblicani, persino democratici, saranno sentiti dagli italiani come i moralistici moniti dei vecchi potenti, seduti sulla loro poltrona, insensibili alle fatiche di ogni giorno degli italiani. Poveri italiani, però, quando si accorgeranno che, seguendo il nuovo, non hanno dato credito ad un nuovo partito, ma ad un nuovo sistema di potere, di cui l’allusione all’impeachment di Di Maio ha solo anticipato l’avvento, salvo poi far marcia indietro a causa di un palpabile calo di consenso. I suoi elettori non erano ancora pronti a tanto.
Credo, invece, che riconoscere al fronte populista lo statuto che gli compete, cioè di movimento, richieda ai partiti un lungo processo di ripensamento verso le prossime (si spera non immediate) elezioni. Occorre anzitutto accettare che il movimento populista ha saputo ascoltare e dar voce ad esigenze degli italiani che i partiti non hanno saputo comprendere. Pochi hanno espresso questo mea culpa. In secondo luogo, la fiducia accordata ad un governo del movimento populista potrebbe costituire l’occasione per svelare l’effettiva consistenza della sua proposta senza bisogno di ammonimenti dai vecchi partiti, come nel caso dell’impeachment di cui sopra. Infine, in questo tempo, i partiti potrebbero raccogliere la lezione dei movimenti populisti, sapendo riorganizzare le proprie forme di comunicazione, di presenza nel territorio, di partecipazione alla scrittura del programma, di ricerca di nuovi nomi e di nuovi volti, in grado di saper parlare ai problemi degli italiani di oggi, senza ricorrere agli insegnamenti di blasonati esperti, che parlano più tedesco e inglese che il dialetto delle loro nonne. È il momento di coinvolgere uomini amati dagli italiani, al di là delle loro lauree più o meno certificate.
Il successo alle scorse elezioni dei partiti populisti rappresenta non solo la crisi, ma anche l’occasione di rinascita della politica italiana. Se non si avverte questo frangente come un’occasione, ma come uno scontro, purtroppo, l’antipolitica avrà la meglio.