Matteo Renzi “endorsato” da Iva Zanicchi è una notizia politica seria o è un gossip da chiacchiere davanti a un caffè? E’ verosimile che l’ex sindaco di Firenze rifaccia un accordo con Berlusconi per averne l’appoggio in Parlamento?

L’uscita della Zanicchi è forse la notizia politica più seria del momento, quanto meno così pensano quelli che ieri hanno intercettato a Roma Denis Verdini, “mentore” del premier di Rignano, impegnato a far la conta — carta e penna alla mano — di quanti parlamentari renziani della legislatura iniziata il 4  marzo scorso sarebbero pronti a seguire Renzi in una nuova formazione politica capace di rilevare il testimone del partitone moderato che fu la Dc e che non è riuscito ad essere Forza Italia, un “En Marche” italiano che possa portare nuovamente a Palazzo Chigi il ragazzaccio toscano senza l’inutile fardello di quella falce e martello che ormai più che una rima non sa fare.



Già: perché non convince proprio nessuno questo minuetto della chiusura ai 5 Stelle votata ieri all’unanimità da una direzione Pd che ha semplicemente preso di nuovo atto della spaccatura tra l’unico leader carismatico popolare che — piaccia o meno — gravita ancora in quel partito e i colonnelli rimasti in piedi dopo i cinque anni del suo regno. 



Una chiusura che maschera in verità una frattura insanabile. Renzi non crede a questo modo negoziale di formare le decisioni, è il teorico di un nuovo centralismo democratico dove il segretario può tutto e decide da solo, è convinto che la sconfitta del suo partito, eclatante quanto fu quel 41 per cento preso alle europee, sia sostanzialmente colpa della debolezza della sua squadra politica ma non sua e non delle disillusioni che lui ha inferto agli elettori meno convinti e fedeli tra i tanti che lo scelsero.

E poi fa un calcolo politico: gli italiani in “libera uscita” elettorale, occasionalmente schierati per i 5 Stelle, o ancora attaccati alle gonne di una Forza Italia senza più forza, non potranno che essere prima o poi attratti da lui, che si sente un Berlusconi giovane. E se non voteranno per lui, del resto, per chi? Per Matteo Salvini, che non tranquillizza la classe dirigente e i “poteri forti” internazionali? O per “Liberi e Uguali”, con la sua sgangherata nostalgia per una sinistra ideologica pronta a infrangersi alla prima curva, tra il radical-chicchismo della “colonna” della Boldrini e l’operaismo dei vari Fassina? 



Quindi — calcola Renzi — chi vuole un’Italia moderata ma efficiente non potrà che votare il nuovo Partito della nazione inventato da lui e costruito come un patchwork sui pezzi di Forza Italia e del Pd: il partito del Nazareno, insomma.

Questo non può significare, per Renzi, andare già oggi a riscrivere l’accordo con Berlusconi, che non è ancora disposto a mollare ed anzi si augura di poter essere riabilitato sin dal prossimo luglio dalla magistratura milanese per potersi ricandidare al prossimo giro alla guida diretta del centrodestra. Significa attendere, influenzando comunque ancora e pesantemente le scelte del suo ormai-quasi-ex partito d’origine.

Origine, poi: Renzi è un ex-giovane democristiano, boy-scout per giunta, margheritino per scelta, piddino per ripiego, rottamatore per necessità egotica, leader naturale e comunque autocrate. Non può essere gregario di nessuno, questo — per tanti — è il suo bello: e per altrettanti è il suo limite. Certo, se il Pd andasse a Canossa, sotterrando l’ascia di guerra e riacclamandolo come capo indiscusso, ci potrebbe anche ripensare: ma sa che non accadrà, perché comunque aver dimezzato i voti è uno schiaffo in piena faccia che non gli potrebbe essere perdonato presto, quantomeno non dalla base elettorale autentica del partito. E dunque, Renzi ricomincerà da sé: è solo questione di tempo, ma poco tempo.