I dati diffusi dall’Istat nei giorni scorsi, pur mostrando una diminuzione in Italia del numero di disoccupati, riportano però un tasso di disoccupazione dell’11 per cento che in Europa posiziona il nostro Paese solo davanti alla Spagna e alla Grecia, e con la disoccupazione giovanile (al 31,7 per cento) pari al doppio della media europea. Ma i dati dell’Istituto di ricerca insistono nell’evidenziare l’esistenza di un sempre più netto divario tra Nord e Sud. Nel meridione infatti il tasso di disoccupazione è tre volte maggiore di quello del Nord: il 19,4 per cento a fronte del 6,9.
Sull’argomento, è intervenuto anche il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, nel suo discorso in occasione del Primo maggio. “La disoccupazione dei giovani è ancora troppo elevata, e al sud la mancanza di lavoro ha proporzioni inaccettabili”, ha ricordato il Capo dello Stato.
La drammatica “questione meridionale” in Italia non si è mai chiusa ed anzi, nel corso della crisi economica esplosa a partire dal 2008 la forbice tra Nord e Sud si è allargata.
Ci sono voci di singoli nel mezzogiorno che ripropongono le rivendicazioni del Sud o che partono addirittura da tutti i danni e le defraudazioni subite fin dalla seconda metà dell’800 con l’Unità d’Italia, le industrie del sud chiuse e con macchinari trasferiti al Nord, come negli esempi di archeologia industriale delle Reali Ferriere ed Officine di Mongiana (che nel 1860 davano lavoro a 1.500 operai) e della ferriera della Ferdinandea, che utilizzava le risorse minerarie di Pazzano, Stilo ed altre località della valle dello Stilaro.
Esempio ne è Pino Aprile, che con il suo Terroni. Tutto quello che è stato fatto perché gli italiani del Sud diventassero meridionali ha ricostruito dal suo punto di vista la storia del Mezzogiorno dalla fine dell’epoca borbonica fino alla nascita della Repubblica, mostrando un sud diverso da quello piagnone e parassitario fonte di tanti luoghi comuni nel pensiero dominante. Ci sono anche gruppuscoli minoritari definiti filoborbonici e neoborbonici, additati e accusati, spesso ingiustamente, di revisionismo o revanscismo.
Non ci interessa, in questa sede, di stabilire se verità (e falsità) storiche stiano più dalla parte dei “neoborbonici” oppure in quella della storiografia ufficiale del Risorgimento. Ci torna piuttosto in mente Thomas Merton quando affermava che ”La tragedia del nostro tempo non sono tanto le opere dei malvagi, ma piuttosto l’inutilità delle opere dei buoni”. Le rivendicazioni e le denunce rischiano di servire a nulla rispetto ad una realtà in cui l’economia è arretrata e deficitaria, tutti i servizi pubblici funzionano peggio che nel resto dell’Italia, le infrastrutture sono carenti, arretrate e inefficienti. Qualsiasi indicatore si guardi, l’immagine di alcune regioni è quella di territori e cittadini abbandonati al proprio destino, a volte colpevoli ma nella maggior parte dei casi vittime dell’incapacità e della protervia della politica e delle pubbliche amministrazioni.
La convinzione che il risultato elettorale del 4 marzo al Sud sia la conseguenza di aspettative di assistenzialismo è figlia di una lettura superficiale da parte della classe politica ed anche del sistema dell’informazione. Anzi è un voto che va in una direzione opposta: per la prima volta dall’introduzione del suffragio universale, nelle regioni del Sud è praticamente scomparso il voto clientelare o di convenienza. Nelle quattro regioni più meridionali (Campania, Puglia, Basilicata e Calabria) più le due Isole il dato certamente clamoroso è stato quello del M5s che ha raggiunto il 46,9% (alla Camera); ma questo risultato va letto insieme a quello della Lega di Salvini che nelle stesse Regioni ha ottenuto il 5,7% dei voti; proprio quello stesso Salvini che cantava il coro da stadio “son colerosi, terremotati…”. I due partiti che fino a pochi mesi fa potevano impropriamente definirsi antisistema hanno ottenuto congiuntamente nel meridione una percentuale più alta rispetto al 49% registrato nel totale nazionale. Certo Di Maio e Salvini non governeranno insieme, ma insieme, al Sud, hanno abbondantemente superato la maggioranza assoluta.
Si tratta di un voto di protesta ed espressione di una volontà di cambiamento radicale, e non di un’aspettativa rispetto alle rispettive promesse da marinaio della campagna elettorale, ovvero reddito di cittadinanza e flat tax. Ed il voto a favore della Lega al Sud non può nemmeno essere spiegato esclusivamente dall’insofferenza verso la presenza di immigrati, regolari e non.
C’è piuttosto il senso di stanchezza verso l’abbandono del Sud. In primis evidenziato dalle martoriate condizioni economiche e della conseguente disoccupazione. Dalle regioni meridionali è ripresa, nell’ultimo decennio, una forte tendenza immigratoria, in particolare verso il Nord ma anche verso l’estero. Molti dei giovani meridionali che studiano negli atenei settentrionali, una volta che terminano il loro percorso universitario non ritornano certo nei territori di origine per un lavoro che non c’è o per avventurarsi in esperienze professionali in un contesto economico e produttivo che non dà certo aspettative esaltanti. Così come tanti laureati nelle università del Sud, una volta terminati gli studi, parte per cercare un lavoro.
Questa nuova emigrazione provoca anche un disastro demografico: la popolazione residente si sta riducendo, ma i dati reali sono ancora più gravi di quanto mostrino le statistiche, perché la maggior parte dei migranti interni mantiene la residenza nei comuni di origine solo formalmente. Ciò determina anche un notevole incremento dell’età media della popolazione con un evidente invecchiamento, con conseguenze che incidono su un altro dei settori disastrati del Sud, quello della sanità.
I piani di rientro ed i commissariamenti della gestione sanitaria in alcune regioni hanno provocato un netto calo della qualità dei servizi sanitari. La migrazione sanitaria è in costante aumento, provocando problemi gestionali anche nei sistemi sanitari regionali dove la migrazione è diretta. I piani di rientro hanno determinato il blocco delle assunzioni e del turnover, soprattutto di medici ed infermieri, con evidenti contrazioni della quantità e della qualità dei servizi offerti. La crisi economica ed il mancato accesso a strumenti di diagnosi e prevenzione stanno determinando una riduzione dell’aspettativa di vita, già stimata mediamente di un anno in meno, nella media delle regioni del Sud rispetto al Nord.
Altra netta evidenza della discriminazione negli investimenti pubblici nel Sud è quello delle infrastrutture. La Salerno-Reggio Calabria che Matteo Renzi ha inaugurato ma che non è del tutto finita e presenta ancora durevoli cantieri di manutenzione, oltre a qualche tratto tra i più trafficati come quello tra Cosenza e Falerna in cui l’ammodernamento non è nemmeno iniziato, è solo una cartina di tornasole. La viabilità secondaria è, in alcune zone, a livelli non concepibili per un Paese che dovrebbe essere europeo. L’arresto degli investimenti pubblici, insieme all’incompleta cancellazione delle amministrazioni provinciali, ha avuto come conseguenza che molte strade interne che erano di competenza delle province, dopo che avvengono frane o comunque subiscono danni per l’usura e per l’azione del maltempo, non sono più oggetto di manutenzione e quindi vengono chiuse al traffico per lunghi anni o addirittura in modo definitivo.
La SS106 (da Taranto a Reggio Calabria), altro cantiere aperto da anni e che costituirebbe una buona alternativa all’autostrada, è stata ammodernata solo in alcuni tratti ed è diventata una telenovela peggiore della famigerata A3. Si tratta, tra l’altro, di un’arteria che ormai da decenni è definita la “strada della morte” per l’alto numero di incidenti mortali che vi si registrano ogni anno. Per non parlare dei crolli su strade appena costruite, come quello del viadotto Himera dell’autostrada Palermo-Catania, crollato tre anni fa ed i cui lavori di ricostruzione sono stati affidati solo a febbraio di quest’anno o come uno svincolo della nuova variante della stessa 106 chiuso per lunghi mesi al traffico, a causa del crollo di un muro di contenimento, proprio a poche centinaia di metri dalla nuova sede della Regione Calabria, a Catanzaro, a meno di tre anni dall’apertura e su cui è in corso un’inchiesta della magistratura.
Molte strutture pubbliche, come scuole e impianti sportivi, senza interventi di manutenzione, vengono chiuse perché inagibili o si continua ad utilizzarle con deroghe alle più elementari norme di sicurezza.
Per continuare sulle carenze infrastrutturali come non citare le ferrovie? L’alta velocità si ferma a Salerno ed i treni assegnati alle tratte del Sud sono probabilmente almeno venti anni più vecchi di quelli che circolano nel resto d’Italia.
Il Sud forse non ha bisogno degli sfoghi elettorali verso il M5s e verso Salvini, né di far emergere la sua rassegnazione lamentosa; avrebbe più bisogno di normalità. Sperando che nel frattempo nessuno impugni i forconi.