Che cosa farà domani Sergio Mattarella? È una domanda da un milione di euro e i migliori quirinalisti si danno da fare per cercare la soluzione. Dal Colle non trapela nulla nemmeno fosse il Cremlino o, paragone forse più appropriato, la Cappella Sistina durante il conclave. Ascolterà certo, per l’ennesima volta, i capi dei partiti. Sentirà Matteo Salvini dire che è pronto a ricevere un incarico per guidare un governo di centrodestra. E con quale maggioranza? L’idea di racimolare voti in parlamento facendo ricorso a un manipolo di “responsabili” non è il massimo e al presidente della Repubblica non piace. Luigi Di Maio dirà: o me o le elezioni a giugno e già Beppe Grillo ha rilanciato la campagna dei Vaffa…



A sentir parlare di elezioni, una febbrile eccitazione ha preso partiti che amano fare propaganda, ma non sanno come governare e forse non lo vogliono neppure. Quanto al Pd, il segretario Martina sosterrà un governo tecnico o istituzionale votato da tutti che non piace in realtà a nessuno. Se è così, il gioco dell’oca politica torna alla casella di partenza. Dunque, toccherà a Mattarella spezzare il circolo vizioso.



Il presidente parte da poche certezze, sostanzialmente tre. Primo, le elezioni anticipate vanno evitate non solo perché aumentano l’instabilità e creano allarme in Europa e sui mercati finanziari, ma anche perché non cambiano nulla (tutti i sondaggi, per quel che valgono, lo dicono), cioè non sono in grado di decretare un chiaro vincitore. Secondo, bisogna varare un esecutivo in grado di produrre una Legge di bilancio per impedire l’aumento dell’Iva che scatterebbe automaticamente dal primo gennaio 2019 (costo minimo 12,5 miliardi), trovare le risorse per le cose più urgenti (per esempio sostegni alla categorie sociali più svantaggiate e riduzione delle tasse, costo minimo 30 miliardi) e riaprire i cantieri delle riforme (Pubblica amministrazione, scuola, giustizia, ecc.). Terzo, occorre mettere in corsia preferenziale un cambiamento della legge elettorale che garantisca la governabilità.



Al referendum costituzionale il 4 dicembre scorso, i fautori del No hanno battuto, con successo, sul tasto che la riforma Renzi avrebbe ridotto gli spazi della democrazia la cui essenza è la massima espressione della volontà popolare; le elezioni hanno dato spago alla rappresentanza politica al punto da non produrre nessun chiaro vincitore; ciò ha riproposto in modo lampante il problema della governabilità. Forse la riforma costituzionale proposta da Renzi non era la soluzione giusta, ma non si può negare che il problema resta sempre quello: fare in modo che la volontà popolare si incarni in un governo del Paese, e non produca una paralizzante guerra di tutti contro tutti.

Se la Legge di bilancio e la riforma elettorale sono due priorità chiarissime a Mattarella, che cosa potrà mai escogitare il presidente della Repubblica? Nel 1993, di fronte a una fase di stallo molto simile, nel bel mezzo di Tangentopoli, mentre stavano crollano la Dc, il Psi e i partiti nati nel secondo dopoguerra, l’incarico venne dato a Carlo Azeglio Ciampi, che era governatore della Banca d’Italia. Durò esattamente un anno, per chiudere la legislatura nel maggio 1994. Si trattava di un gabinetto istituzionale, ma le condizioni politiche erano diversissime; in ogni caso dieci ore dopo il giuramento, il Pds e i Verdi ritirarono i loro ministri perché il parlamento non concesse l’autorizzazione a procedere contro Bettino Craxi.

Alle elezioni del 1994 vinse Forza Italia, la nuova formazione politica creata da Silvio Berlusconi. Formò un governo insieme alla Lega Nord la quale però si ritirò 8 mesi dopo nel pieno di una bufera per l’avviso di garanzia a Berlusconi anticipato dal Corriere della Sera. Invece di indire nuove elezioni, il presidente della Repubblica Scalfaro chiamò Lamberto Dini, già direttore generale della Banca d’Italia, per formare un governo composto solo da tecnici, con l’appoggio esterno delle formazioni di centro-sinistra più la Lega; restò in carica un anno e 4 mesi fino alle elezioni del maggio 1996 vinte da Romano Prodi.

Nel novembre 2011 una nuova crisi politica porta a palazzo Chigi l’economista Mario Monti, il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano chiede la partecipazione attiva di tutti i partiti, invece diventa un gabinetto d’emergenza per evitare il crac da debito sovrano. Nell’aprile 2013 come conseguenza di elezioni che producono una maggioranza alla Camera diversa da quella del Senato, Napolitano affida a Enrico Letta l’incarico di formare un “governo delle larghe intese”. Resta in carica nove mesi. Adesso, dopo nuove inconcludenti elezioni, dovrebbe nascere una ulteriore variante, ma chi la sosterrà? Finora hanno aperto le porte soltanto il Pd e Forza Italia.

Ammesso che prenda vita, non è probabile che possa ballare una sola estate, come i governi balneari della prima repubblica. La scadenza fondamentale, infatti, resta la Legge di bilancio che deve essere varata a dicembre. Inoltre, non è realistico sostenere che la nuova legge elettorale si può fare in 48 ore. Intanto perché ogni partito ha la sua ricetta e poi perché non basta aggiungere un premio di maggioranza al sistema attuale. C’è il rischio che venga bocciata dalla Corte costituzionale, come è già avvenuto per il Mattarellum. Per garantire governabilità e insieme rappresentatività, il Rosatellum va rifatto e ci vuole tempo.

Consapevole di queste difficoltà, il presidente della Repubblica vorrebbe rivolgersi a tutti gli italiani con un appello pubblico, trasmesso in prima serata dalle televisioni, secondo quel che scrive sulla Stampa Ugo Magri, di solito ben informato. Un gesto per molti versi drammatico che finirebbe senza dubbio per accendere i riflettori internazionali su una crisi italiana finora considerata di normale amministrazione. E tuttavia un gesto in sintonia con i tempi, volto a rintuzzare l’accusa che già arriva dal Movimento 5 Stelle: un golpe bianco alle spalle degli italiani. Il rischio che l’operazione fallisca è alto, senza dubbio Mattarella lo sa bene e lo ha calcolato. Del resto, ha già fatto appello al senso di responsabilità nei colloqui riservati con i capipartito, ma non è stato ascoltato; adesso sente il bisogno di parlare a tutti, urbi et orbi.

Il presidente conta sul fatto che la brama di potere non abbia ancora spiazzato completamente il buon senso e il riconoscimento del bene comune, sia tra gli elettori, sia tra gli eletti dal volto del 4 marzo. Chissà, forse ha ragione a puntare sull’ottimismo della volontà.