Sarà questa settimana che il presidente della Repubblica Sergio Mattarella metterà alla prova la sua abilità di supremo alchimista. Con sortilegi, formule esoteriche e incanti dovrà trasformare umori, arie e spifferi di corridoio in sostanze concrete che portino l’Italia verso un governo ormai solo di guado oppure verso le urne.
Intorno a lui, infatti, non c’è alcunché di solido, di chiaro, tangibile; solo ombre, spettri e fantasmi. Da qui quindi cominciamo.
L’ombra più grande chiara che si staglia nell’orizzonte a medio termine, oggi, è quello della Lega di Matteo Salvini. Salvini è rimasto imperturbabile mentre il suo n. 2 di fatto, Silvio Berlusconi, faceva pantomime al Quirinale; né ha perso la tramontana con le aperture e chiusure estemporanee, e incomprensibili ai più, dell’M5s di Luigi Di Maio, o i drammi psicologici del Pd nel pieno di una crisi di nervi.
Il suo problema, che non è alchemico, è ragionevole: può un partito populista e razzisteggiante vincere le elezioni in Italia? Non gli servirebbe virare più a centro? Inoltre, piaccia o non piaccia, l’Italia è nella Nato e nella Ue: la Lega può sopravvivere sfidando entrambi? Nessun paese vive nell’isolamento, non è mai stato così, oggi meno che mai. Se Salvini non fa i conti con l’estero, l’estero ha mille modi per fare i conti con Salvini.
Ma al di là di Salvini si apre lo spazio dei fumi confusi.
Il più semplice è quello di FI con Berlusconi capo di un’azienda e di un partito, legati l’uno all’altra. Da una parte il Cavaliere vuole salvare l’azienda, dall’altra parte il partito è in fuga spaventato dalla sconfitta subita e dall’esilità della linea di trattativa fin qui seguita. In realtà, tranne forse un gruppo di fedelissime, pare che tutti in FI siano pronti a passare armi e bagagli con Salvini. Se è così, il partito FI è ormai solo una finzione, una mano di vernice sopra le aziende.
Il caso più contorto è quello del Pd. Qui c’è un segretario ombra che comanda senza avere titoli formali, Matteo Renzi. C’è un uomo di sfondamento ombra, Michele Anzaldi, onnipresente e iperattivo, anche lì senza forma e senza titoli. C’è un superministro ombra, Marco Minniti, che tiene i ministeri di Interno, Esteri e Difesa evitando di apparire. Infine c’è l’ombra di un primo ministro, Paolo Gentiloni che sta lì senza che nessuno sappia ormai perché.
Infine ci sono i pentastellati nati nella commedia dell’arte di Beppe Grillo e poi sostanziatisi in partito politico, e tornati in questi giorni all’origine grazie a un’inversione, condotta da Luigi Di Maio, del processo alchemico operato un dì da Casaleggio padre (segno che il processo era quanto mai instabile).
E qui la politica diventa comica. Di Maio, ha passato settimane a fingersi uomo di stato, senza un pelo fuori posto, con giacca e cravatta sempre in ordine. Ma al di là della forma non ha convinto nessuno. Se con il 32 per cento non ha convinto almeno parte del 68 per cento mancante la colpa è solo sua; il 68 per cento ha fatto il suo mestiere, alzare il prezzo della vendita. Se tu non vuoi o non sai pagare il prezzo richiesto “e il melone è uscito bianco mo’ con chi t’a vuoi piglià?”, gli avrebbe cantato Carosone.
Infatti il M5s, partito né di lotta né di governo (il contrario di quello che voleva Berlinguer), è in crollo verticale di consensi. Un ricorso alle urne sancirebbe l’emorragia avvenuta. Di Maio quindi può urlare che vuole tornare alle urne il prima possibile, ma è come il bambino che vuole scappare di casa. Se lo fa davvero, il concreto fantasma dei votanti delusi se lo porta via. Se resta, mette da parte stipendio e favori per mettersi in pensione prima dei 40 anni e magari, chissà, rimonta anche la china.
Questa l’ombra vera forse che Mattarella deve verificare: Di Maio è davvero un bambino? Oppure ha un grano di ragionevolezza? Da lontano non ne abbiamo idea.
Se è ragionevole, comunque oggi il prezzo che dovrà pagare sarà enorme. Se non ha saputo comprare al rialzo il 68 per cento altrui, domani dovrà vendere al ribasso il suo 32 per cento che già oggi è terreno di caccia della Lega. Il partito di Salvini infatti brama di avere quel 10-15 per cento di votanti in fuga dal M5s ed esso sì, davvero, non ha paura del voto.
È facile infatti che la Lega rosicchi un po’ al M5s e un altro po’ a FI e superi trionfale il 40 per cento necessario.