La macchina della giustizia non è più in grado di rispondere alla sua funzione, dice Elvio Fassone, magistrato, deputato del Pd per due legislature. Per questo va cambiata. Fassone è autore di Fine pena: ora, uno scambio epistolare umanamente denso e appassionante lungo 26 anni tra un giudice — l’autore — e un carcerato, condannato all’ergastolo negli anni Ottanta dallo stesso Fassone. Ma prima dell’esecuzione della pena viene la condanna (o l’assoluzione) e prima di questa l’amministrazione della giustizia deve fare il suo corso. Che è lungo, troppo lungo, complicato, pieno di disfunzioni. Di questo abbiamo parlato con Fassone, cominciando dall’Italia “diversamente corrotta”, così l’ha definita il capo dell’Anac Raffaele Cantone a Radio Capital rispondendo a una domanda sul maggiore o minore grado di corruzione del nostro paese rispetto a tre anni fa. 



Dottor Fassone, cosa pensa dell’azione dell’Anac? Come soggetto terzo comporta rischi rispetto all’azione della giustizia ordinaria?

Non credo affatto che si ponga in antagonismo per la giurisdizione, proprio perché la corruzione ha un milieu nel quale può fiorire e fiorisce, ed è su tale ambiente che va concentrata l’attenzione per renderlo refrattario. Ci sono punti nodali della pubblica amministrazione che sono più esposti: le concessioni edilizie, gli uffici appalti, i benefici finanziari, i mutui. Concentrando le energie sui luoghi della Pa nei quali la corruzione è più probabile, Cantone fa prevenzione, irrobustendo l’amministrazione proprio in quei gangli. E’ un lavoro prezioso e non concorrente. 



Perché la macchina della giustizia non funziona?

L’attuale processo, introdotto con la riforma del 1989, ha messo in piedi una macchina così sofisticata e complessa che il suo prodotto finito, cioè la sentenza arriva dopo troppi anni. In media sono otto. L’inadeguatezza produce una compensazione che peggiora le cose.

Cosa intende?

Se nella sanità il cittadino deve attendere sei mesi per una prestazione erogata dal pubblico, si rivolge al privato. Se la giustizia civile impiega 10 anni a darci il giudicato, il cittadino, se può permetterselo, si rivolge all’arbitrato. Non solo. Si crea anche una distorsione interna al processo.



Quella che lei chiama giustizia del pubblico ministero. Una sorta di succedaneo al cattivo funzionamento della macchina processuale?

Sì. Siccome il processo non è in grado di dare una risposta se non in tempi troppo lunghi, allora essa viene prodotta sulla base di un accertamento provvisorio, incompleto, basato sulle misure cautelari o le indagini. 

Come siamo arrivati a questo, secondo lei?

In Italia abbiamo sempre visto il potere come ostile e straniero, e questo ha sviluppato in noi una mentalità se non antagonista quantomeno diffidente verso chi comanda. Di conseguenza abbiamo costruito un modello processuale fortemente formalistico, demandando alla iper-regolazione la tutela delle garanzie.

Cosa significa in concreto?

Siamo l’unico paese dove anche per 100 euro di multa sono possibili i tre gradi di giudizio. Un’assurdità. Altro esempio: in un lungo e importante processo giunto in Cassazione, la Corte a sezioni unite ha dichiarato la nullità e rinviato tutto alla fase degli atti predibattimentali per omesso avviso del giudizio a uno dei due avvocati difensori. Sa chi erano? Padre e figlio, e operavano nello stesso studio. La giustizia italiana è piena di questi casi mortificanti. 

Lei cosa proporrebbe?

Occorre salvare la discrezionalità del giudice. Una riforma che propongo è proprio questa, consentire al giudice di dichiarare che l’eventuale presenza di quella irregolarità non produce un’apprezzabile lesione del diritto di difesa, salvo alla difesa dimostrare l’effettivo pregiudizio nel caso concreto. Occorre sostituire al modello ormai basato sulle formule quello centrato sulla persona.

Perché ancora oggi continua lo scontro tra politica e magistratura?

La politica ha evitato sistematicamente di fare igiene al suo interno e ha delegato per comodità e interesse il compito alla magistratura. Ha abdicato al suo ruolo, confidando nel fatto che la magistratura ha tempi lunghi e colpisce solo se c’è reato, dunque in misura molto minore di quello che indurrebbero a fare il senso dello Stato e del decoro politico. Mi spiego. Il conflitto di interessi non è reato, per questo dovrebbe essere sanato chirurgicamente dalla politica, non dai tribunali. 

Cosa pensa della riforma dell’articolo 68 della Costituzione sulla spinta delle vicende di Tangentopoli?

Tra i partiti si era consolidato uno scambio continuo: proteggevano vicendevolmente i propri esponenti scambiandosi il favore, in questo modo facevano quadrato. Quando l’immunità venne modificata, fu perché la vergogna non si poteva più nascondere. E’ stata una delle riforme più felici e più necessarie. 

Eppure, in questo modo i pm hanno annientato un ceto politico.

Ma chi aveva trasformato una prerogativa in privilegio? L’immunità è l’habeas corpus del parlamentare, risale a quando i parlamentari dell’opposizione rischiavano di essere incarcerati dal re. In regime democratico non ha più ragion d’essere: nessuno fa più incarcerare l’avversario, al massimo lo denuncia e un giudice vedrà se è colpevole. 

Insomma, lei vuole i politici alla mercé dei magistrati.

No. Una cosa è fare indagini, un’altra arrestare: capisco quello che lei dice, per questo penso che l’autorizzazione all’arresto debba essere filtrata dal parlamento.

Nel suo discorso di insediamento, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha dato ampio rilievo al tema giustizia. Si tratta di un programma giustizialista?

Alcune cose sono largamente condivisibili, come la riforma della prescrizione che è una confessione di impotenza della giustizia, l’incapacità ad effettuare l’accertamento di responsabilità che le è richiesto: se lo Stato dichiara la prescrizione, vuol dire che non è in grado di dire se l’accusa è fondata o meno.

Anche lei fece una sua proposta.

Da senatore Pd, e governava il centrodestra, proposi una riforma che ottenne l’assenso di quasi tutte le forze politiche. Poi arrivò la proposta Cirielli e accadde come nelle stazioni in cui il treno dei pendolari si ferma per lasciar passare il Frecciarossa. E la legge poi nota come “ex Cirielli” (perché dopo le modifiche dell’aula il proponente la sconfessò, ndr) produsse gli effetti devastanti che conosciamo.

Come si articolava il suo ddl?

Proponevo di scindere il tempo necessario a prescrivere — evidentemente, per i soli reati prescrittibili — in due arcate temporali: la prima, dal momento del reato a quello in cui la magistratura ne viene a conoscenza. Si stabiliva il tempo dell’oblio: se sono passati molti anni è giusto lasciar perdere, ad esempio dopo 10 anni non ha senso sprecare energie processuali in tre gradi di giudizio. La seconda arcata temporale riguardava il processo: i suoi tempi venivano ripartiti secondo le varie fasi processuali, se non si raggiungeva il grado successivo entro il tempo prestabilito il processo andava in prescrizione.

E cosa pensa della volontà, cito ancora Conte, di “assicurare la certezza della pena”?

Occorre distinguere. Il cittadino non può essere condannato se non in forza di un fatto che la legge ha previsto come reato prima che venisse commesso. E’ un caposaldo irrinunciabile della civiltà giuridica. Il problema è che oggi la certezza della pena è capovolta: le pene sono scritte nelle sentenze di condanna ma poi non vengono eseguite. In molti casi è così, in altri c’è una ragione e sta nel fatto che l’ordinamento nel corso degli ultimi decenni è diventato più flessibile: prevede il perdono del minorenne, la sospensione condizionale, l’affidamento in prova, la detenzione domiciliare eccetera. E’ diventato più umano e flessibile. 

Cosa pensa quando sente di pm noti alle cronache come Di Matteo che entrerebbero in rapporti di collaborazione col governo?

Secondo la Costituzione, tutti hanno diritto di accedere alle cariche elettive: non alcuni, ma tutti. Però riconosco che c’è una tentazione molto forte, non solo nei diretti interessati ma anche nei partiti: il pm è un magistrato che ha visibilità, ha un’immagine pubblica che lo rende idoneo a raccogliere consensi e la politica non ci pensa due volte. Anzi, spesso è la politica a lusingare il magistrato.

Sottoscriverebbe una legge che vietasse ai pm di fare politica?

No, credo più nell’autodisciplina. Occorre che il magistrato si autocensuri.