La politica estera è un gioco di specchi. Fatta di miraggi, dove ciò che appare non è ciò che è. E questo tanto più laddove lo spazio di potenza è stretto, ossia non si svolge tra cieli e terre immense, l’uno dall’altra lontano. Questo spiega la differenza tra la politica estera e la relazione di potenza tra gli Usa e la Russia, o tra gli Usa e la Cina: si solcano oceani, si parla attraverso cavi sottomarini e satelliti, senza vedersi l’un l’altro se non con le tecnologie. Tutto è diverso quando lo spazio della politica di potenza è stretto, ossia tra nazioni confinanti, tra mari condivisi, dove ci si può vedere e parlare a viva voce, o con un viaggio che dura una manciata di ore. Qui la politica di potenza non è solo stretta ma è verticale, ossia tutti i fondamenti della potenza si presentano insieme: dal potere politico al potere economico, in un intreccio fortissimo ma che spesso non appare così evidente.



Guardate il caso del conflitto oggigiorno tra l’Italia e la Francia. I due primi ministri si sono sentiti al telefono amichevolmente pochi giorni fa, ma è bastata una nuova, drammatica vicenda migratoria, con il ministro degli Interni italiano che ha tenuto il punto sulla necessità di far condividere gli arrivi di quelle povere anime con una misericordia transfrontaliera che ha provocato l’intervento del nuovo governo spagnolo — che vuole scrollarsi di dosso l’ipoteca tedesca che il partito popolare di Rajoy gli ha imposto e riallacciare un rapporto con gli Stati Uniti, indispensabile dopo la crisi catalana — perché il sistema di potere oggi dominante in Francia cominciasse il suo gioco di specchi. Un insulto gratuito da parte di un dirigente di En Marche ed ecco le pietre che rotolano, con le richieste di scuse della nostra Farnesina e del muso duro di Macron, che si rifà il trucco con una sceneggiata nazionalistica, per fronteggiare le critiche da sinistra del suo mentore Pisany, che guida un gruppone di economisti francesi preoccupati dello smantellamento dello stato sociale e della burocrazia weberiana che Macron ha sin da subito iniziato a evocare.



Per carità, la politica migratoria è tema importantissimo, ma attenti agli specchietti per le allodole. In quel lago atlantico che è il Mediterraneo, in cui tutto è maledettamente stretto, il problema vero oggi è quello della Libia, e del silenzio che avvolge i preparativi della conferenza viennese del 28-29 giugno, organizzata dalla Noc, ossia dalla compagnia di Stato libica, o di ciò che ne rimane, creata in larga misura dagli italiani i quali sino a ora sono stati estranei alla preparazione di quel congresso che oltre alla compagnia energetica austriaca vedrà la partecipazione, udite!udite!, della spagnola Repsol e di una delle più grandi compagnie mondiali di servizi gasiferi e petroliferi, ossia l’immensa Schumberger, certo public company quotata a New York, ma dalle profonde radici francesi, come francese è il suo fondatore. 



Una conferenza che scaturisce dall’incontro parigino tra Haftar e Serraj, chiusosi solo apparentemente con un nulla di fatto, ma in realtà con l’instaurazione di rapporti franco-russi-egiziani che dovrebbero essere decisivi, dopo le prossime elezioni libiche, per cacciare definitivamente gli italiani dalla Libia. Il tutto incardinato, di silenzio in silenzio, nei lavori avvolti di mistero del cosiddetto Trattato del Quirinale, ossia del trattato italo-francese che il governo Gentiloni aveva cominciato a scrivere in una quanto mai sbilanciata architettura di potenza: da un lato un fuoriclasse come il ministro Le Maire, per la gloriosa Francia, e dall’altro lato due professionisti stimatissimi ma pur sempre privati cittadini, come l’avvocato Severino e il prof. onorevole Bassanini, in rappresentanza dell’Italia. 

Ci vorrebbe la penna di Theodor Lowj per descrivere questa asimmetria dei poteri sottratta a ogni controllo o iniziativa parlamentare. Pensiamo a come si è scritto il più recente trattato franco-tedesco, con trasparenza, concordate procedure parlamentari, per capire che quello che sta avvenendo non è che la parte di un gioco di specchi su cui sarebbe opportuno gettare il fascio di luce dell’argomentazione pubblica. Ecco un grande banco di prova per il nuovo governo del cambiamento.