Si può dire che la nomina del Governo Conte abbia aperto la via alla terza repubblica, ponendo fine al precedente sistema? Che abbia provocato l’inizio di una nuova stagione politico-istituzionale, al pari di quanto accaduto con il primo governo Berlusconi (maggio 1994-gennaio 1995) per la seconda repubblica?
Ogni risposta, ovviamente, è prematura. La contemporaneità degli eventi è tale da non rendere agevole la distinzione fra la casualità e l’intenzionalità delle novità intercorse. Del resto, è la stessa nozione di “terza repubblica” ad essere equivoca; impiegata in senso tecnico e non più giornalistico, essa presuppone una cesura formale e non meramente politica verso il passato regime, da consacrare con una riforma costituzionale che invece non è mai avvenuta.
La domanda, tuttavia, non è oziosa e aiuta a comprendere meglio l’orientamento delle tendenze politiche e istituzionali in atto; ove confermate, esse sono tali da legittimare nuove prassi, convenzioni e consuetudini costituzionali, queste sì suscettibili di segnare una rottura con il passato sistema e l’avvio di una nuova fase, sia pure meramente politico-istituzionale e non ancora propriamente costituzionale.
Venendo all’esame delle principali novità politico-istituzionali, la prima è propedeutica alle altre e riguarda le elezioni politiche del 4 marzo. Queste hanno registrato una grande affermazione del Movimento 5 stelle (32,7%), il “sorpasso” tra le fila del centrodestra da parte della Lega (17,4%) nei confronti di FI (14%) e, infine, il tracollo del Pd (18,7%). Più che il risultato in sé, tuttavia, merita particolare attenzione l’analisi dei flussi elettorali. Il dato interessante è stato evidenziato dall’Istituto Cattaneo a proposito del transito di voti verificatosi fra Pd e Lega per il tramite del M5s. Quest’ultimo al sud ha agito da partito “pigliatutto”, capace di attrarre voti da tutte le direzioni; nel mentre, specialmente al nord, ha agito da partito “traghettatore” di voti dal centrosinistra al centrodestra, cedendo alla Lega i voti prima attratti dal Pd.
Il rilievo è basilare, perché mostra una libertà politica dell’elettore prima difficilmente praticabile.
Nel corso della prima repubblica, come si ricorderà, il voto era tendenzialmente “bloccato” dall’assetto geopolitico, con la conseguenza che la preferenza verso il partito prescelto era determinata dalla relativa collocazione internazionale più che dal merito dimostrato (si pensi all’invito di Indro Montanelli a votare Dc “turandosi il naso”). Il sistema proporzionale dell’epoca, dunque, era adeguato alle relative necessità, favorendo un modello di governo flessibile e fondato sulla capacità compromissoria dei partiti.
Nel corso della seconda repubblica, allo stesso modo, il voto è stato tendenzialmente “bloccato” dagli effetti del bipolarismo animalesco e famelico in vigore, con la conseguenza che anche in questo caso la preferenza verso il partito prescelto è stata spesso vincolata da motivazioni indipendenti dal merito politico. Il sistema maggioritario si è dunque mostrato controproducente, favorendo un modello di governo rigido e fondato sul diniego di ogni accordo fra partiti nemici, con la conseguenza d’impedire il compimento compromissorio di quelle riforme essenziali a rinnovare il Paese.
Per contro, con le elezioni del 2018 il voto è apparso finalmente “sbloccato” dai precedenti vincoli, al punto che molti dei tradizionali elettori del centrosinistra hanno votato Lega o M5s senza alcuna remora o conseguenza.
Di qui, il problema politico all’origine delle successive questioni istituzionali. La recuperata agibilità di voto, infatti, ha integrato la condizione presupposta dal Rosatellum per la realizzazione del nuovo modello di governo. Si tratta di una condizione tipica di ogni sistema proporzionale — anche quindi di quello spurio introdotto dalla nuova legge elettorale — e consiste nella necessaria capacità compromissoria dei singoli partiti, allo scopo di consentire la formazione di un governo di coalizione altrimenti irrealizzabile. A tale necessità, tuttavia, la riscontrata agibilità di voto ne ha aggiunta un’altra, consistente nella necessità di trasparenza dell’azione dei partiti, così da rendere praticabile quella responsabilità politica in passato scarsamente esercitata.
Il compimento di queste condizioni, tuttavia, è stato osteggiato da ragioni di ordine culturale e di meccanica elettorale: nell’un caso, valgono le tante recriminazioni mosse nel trentennio trascorso verso il compromesso politico, degradato spregiativamente a inciucio e additato quale causa principale di tutti i mali presenti; nell’altro caso, valgono gli effetti degli artifizi di meccanica elettorale appositamente previsti dal Rosatellum, consistenti nel far lucrare alle liste riunite in coalizioni (veri e propri cartelli elettorali) un numero premiale di seggi negato invece alle liste singole. Proprio da tali artifizi è emerso il peccato originale della nuova legge. Questa era stata elaborata allo scopo di sovrarappresentare i principali partiti (FI e Pd) delle coalizioni concorrenti con un duplice fine: consentire agli stessi di sfilarsi dalle coalizioni di riferimento, una volta riscossi i seggi premiali all’indomani delle elezioni; e partecipare alla formazione di un governo trasversale (il cosiddetto “Renzusconi”), una volta affrancati dai precedenti vincoli di coalizione.
La clamorosa sconfitta di quei partiti, tuttavia, impensabile al momento della scrittura della legge, ha ribaltato i pronostici (verrebbe da dire: il diavolo fa le pentole, ma non i coperchi). E così il partito più penalizzato dal Rosatellum (M5s) si è trovato a individuare, fra le due coalizioni avverse, un altro partito disponibile a condividere la maggioranza di governo. Il tutto, con la conseguente necessità di dover colmare in via politica il deficit culturale insito nella legge elettorale; in altri termini, con l’esigenza di non far figurare come inciucio un accordo partitico alternativo ai messaggi veicolati durante la campagna elettorale.
È nella nuova situazione tratteggiata, del tutto inedita nella storia repubblicana, che occorre contestualizzare le novità di seguito accadute. Esse hanno riguardato principalmente: il “contratto di governo”, il conseguito compromesso fra i partiti firmatari, la sofferta e complessa nomina del governo e il differente ruolo riconosciuto al presidente del Consiglio. Tali novità attestano anzitutto l’esigenza di colmare il divario politico provocato dal Rosatellum fra elettori e partiti di governo. Al netto delle storture costituzionali variamente ravvisate e lamentate, esse dimostrano la preoccupazione dei partiti di maggioranza di fornire, sia pure ex post, un’adeguata copertura politica a un programma di governo non vagliato dagli elettori, in quanto formulato dopo la campagna elettorale tra forze politiche alternative. Da tale punto di vista, lo stretto canale comunicativo venutosi a creare fra elettori, partiti della maggioranza e governo non è da leggere in chiave populista e antidemocratica, quasi a voler bypassare il tradizionale circuito democratico popolo-partiti-Parlamento, che proprio negli organi costituzionali continua a trovare i necessari riferimenti di sintesi e garanzia. Piuttosto, esso vale a legittimare e vincolare innanzi agli elettori il carattere compromissorio dell’indirizzo di governo convenuto.
Emblematico, al riguardo, è il “contratto di governo” stipulato dai vertici dei partiti di maggioranza. Da un punto di vista costituzionale, questo non è meno surreale degli altri accordi negoziali celebrati in passato dalle tante parti politiche, che ora invece ne invocano i limiti a piena voce. Vi è una linea di continuità che ne lega la sequenza. Il pensiero va al “patto della staffetta”, convenuto nell’agosto del 1986 fra Craxi e De Mita; al “contratto con gli italiani” presentato e firmato da Berlusconi nel maggio 2001 a Porta a Porta di Bruno Vespa; al “patto del Nazareno”, concluso nel gennaio 2014 fra Renzi e Berlusconi nella sede del Pd.
E tuttavia, rispetto agli accordi citati, quello attuale presenta una differenza significativa. L’elemento di novità non attiene tanto alla discutibile portata del relativo vincolo (come al solito meramente politico e deontologico), quanto, piuttosto, alla ragione che ne ha dettato l’origine. Questa è consistita, ancora una volta, nella necessità di assicurare pubblicità e legittimazione a un programma di governo approvato in forma compromissoria fra partiti antagonisti dopo le elezioni e, dunque, non convenuto con gli elettori.
Basterebbe tale rilievo per dimostrare l’abisso che intercorre fra il contratto di governo M5s-Lega e il patto del Nazareno: l’uno, scritto per pubblicizzare gli impegni presi; l’altro, concluso per secretare le modalità di spartizione degli ambiti convenuti (nomine cariche istituzionali, riforme telecomunicazioni, giustizia, ecc.), sino a rendere insopportabile lo “stantio odore di massoneria” che ne emanava, come denunciò Ferruccio de Bortoli in un editoriale sul Corriere della Sera. Eppure, proprio un tale Patto ha tenuto sotto scacco l’Italia intera, imponendo al Parlamento di approvare, sotto minaccia di scioglimento anticipato, tanto una riforma elettorale vergognosa, puntualmente dichiarata illegittima dalla Consulta, quanto una riforma costituzionale non meno pericolosa, respinta dal 60 per cento degli elettori.
Le altre novità s’inquadrano sostanzialmente nella prospettiva tracciata, di rendere pubblico e condiviso socialmente un compromesso politico non vagliato dal corpo elettorale.
La stessa vicenda della nomina del governo da parte del presidente della Repubblica, sia pure nella drammaticità istituzionale del conflitto poi opportunamente rientrato, poco aggiunge a quanto riscontrato. Se mai, essa è significativa di un’altra questione finalmente posta a tema dopo un trentennio di silenzio, che è quella della “sovranità limitata” cui è sottoposta l’Italia.
Si tratta di una questione che non vale tanto in sé, trattandosi di un dato oggettivo e indiscutibile, quanto piuttosto in relazione alla relativa consapevolezza e al realismo politico che i partiti di governo vogliano impiegare al riguardo. Più che rimandare alle vane rivendicazioni di principio sull’illimitatezza della sovranità nazionale da rivolgere ai mercati, alle banche centrali e agli organismi internazionali, essa rinvia piuttosto all’interrogativo sul tipo di democrazia sociale compatibile con i limiti gravanti sul Paese. E’ un interrogativo che spetta alla politica risolvere e la cui risposta segna il carattere della stagione politica considerata.
La questione, del resto, non è nuova. Quanto alla prima repubblica, rimane emblematica la riflessione di Augusto del Noce a proposito dei margini di libertà guadagnati dalla politica nazionale durante nella radicale frattura della guerra fredda: “Yalta ha generato il mostro dalle due teste, e queste due teste possono, o devono insultarsi, ma non di più; non dispongono di un corpo proprio, ma si alimentano della vita dello stesso mostro; distanti tra loro non possono incontrarsi; né possono, né intendono suggerire al mostro il suicidio. Andreotti ha capito questo e si è presentato come colui ‘che non mette in discussione’, ma accetta come ‘provvisoriamente definitivo’ l’ordine di Yalta”. La stessa vicenda del rapimento e assassinio di Aldo Moro non è considerabile altrimenti.
È stato piuttosto ai tempi della seconda repubblica che la questione della gestione democratica della sovranità limitata che vincola il Paese è stata tacitata dal dibattito politico; ciò probabilmente al fine di rafforzare l’idea delle “magnifiche sorti e progressive” guadagnate all’Italia dall’adesione ai Trattati europei e alla moneta unica. L’esito è stato quello di una politica estera uniforme, prevedibile, assai distante dall’esercizio dei coraggiosi spazi di manovra guadagnati in passato e, soprattutto, incapace di rendere manifeste le ragioni del nuovo scenario geopolitico, delle differenze fra le parti e delle possibili nuove forme di compromesso. E anzi, potrebbe parlarsi al riguardo di una politica ermafrodita, che ha trattenuto in sé in modo rassicurante ed esente da interrogativi la sintesi delle opposte ragioni. E ciò — per così dire — è stato incarnato dai tanti uomini di governo succedutisi nel trentennio. Valgano al riguardo i nomi di Berlusconi, uomo della P2 (dunque atlantista) ma anche amico di Putin; Veltroni, cresciuto nella Federazione giovanile comunista italiana (Fgci) ma anche kennedyano; D’Alema, politico delle marce per la pace ma anche artefice del conflitto nel Kosovo.
Anche da questo punto di vista, insomma, l’irrompere nel dibattito politico-governativo di uno sguardo differente, non può che aiutare a porre la questione della “sovranità limitata” nell’alveo compromissorio che deve esserle proprio. Interessante al riguardo quanto si legge nel contratto di governo M5s-Lega: “Si conferma l’appartenenza all’Alleanza atlantica, con gli Stati Uniti d’America quale alleato privilegiato, con una apertura alla Russia, da percepirsi non come una minaccia ma quale partner economico e commerciale potenzialmente sempre più rilevante. A tal proposito, è opportuno il ritiro delle sanzioni imposte alla Russia, da riabilitarsi come interlocutore strategico al fine della risoluzione delle crisi regionali (Siria, Libia, Yemen)”.
In conclusione, è ancora prematuro celebrare l’ingresso del Paese nella terza repubblica. E tuttavia, è un buon segno rilevare come le novità intercorse, sia pure a fatica e all’esito di complesse fasi di decompressione, siano nel segno della trasparenza politica e del compromesso fra le parti. Del resto, il compito delle istituzioni costituzionali è proprio quello di stemperare le eccedenze di parte, riconducendole nell’alveo del circuito e delle garanzie democratiche. Dopo tante prove la repubblica è ormai forte; anche il popolo si è dimostrato consapevole della guadagnata agibilità di voto.