Per l’emergenza migranti “servono soluzioni europee, senza innescare dinamiche bilaterali che rischiano di costituire la fine del trattato di libera circolazione di Schengen”, ha detto il presidente del Consiglio Giuseppe Conte a Berlino, prima dell’incontro con Angela Merkel. La cancelliera tedesca ha ribadito la volontà della Germania nel dare solidarietà all’Italia, “potenziando Frontex e tutelando le frontiere esterne”, che sono le parole d’ordine del suo ministro dell’Interno Horst Seehofer, intransigente nel voler respingere i migranti se non si troverà una soluzione europea.
Il bilaterale di ieri segna così una nuova tappa nel processo di avvicinamento al Consiglio europeo del 28 e 29 giugno. Emma Bonino, esponente storica dei radicali italiani, commissario europeo dal 1995 al ’99, ministro del Commercio internazionale nel secondo governo Prodi e ministro degli Esteri nel governo Letta, è sempre stata dell’avviso che la questione migranti e rifugiati se mal gestita avrebbe messo in pericolo la stessa esistenza dell’Unione Europea. “Quella che si è intavolata — dice Bonino al Sussidiario — è in definitiva una partita tra apertura e chiusura, diritto e vantaggi politici”; occorre “accettare finalmente la forma strutturale dei flussi migratori”, fare “il grande salto verso una sempre maggiore integrazione politica”, ovvero “gli Stati Uniti d’Europa”. E nell’immediato, “creare canali legali e sicuri di immigrazione e di ingresso nell’Unione Europea”.
L’incidente con la Francia è stato archiviato. Ciò che non è risolto è il problema più grave: la Libia. Che cosa dovremmo fare secondo lei nell’immediato e nel lungo periodo?
L’attuale situazione in Libia è il risultato di politiche scellerate perpetuate negli anni e di scontri tra interessi puramente nazionali. Dalla caduta di Gheddafi in poi, il paese è precipitato in una situazione di caos politico, economico, territoriale e sociale a cui si è aggiunta negli anni la questione migratoria che di certo non aiuta. La Libia si trova ora in una situazione di instabilità territoriale, con un paese de facto diviso, e politica. Serve innanzitutto una stabilizzazione economica, in cui l’Italia potrebbe ancora giocare un ruolo determinante che vada di pari passo con quella politica.
In concreto?
Serve dialogo tra le parti, quindi intra-libico, e dialogo extra-libico, tra quei paesi europei che hanno interessi primari in Libia, vedasi Italia e Francia. Certamente le iniziative unilaterali di Macron non aiutano. Come anche non aiutano i proclami del ministro Salvini. Ma soluzioni miracolose e miracolanti non ce ne sono. Senza dimenticare un tema che non viene affrontato da un po’.
A che cosa pensa?
Alla questione terrorismo: non solo per la Libia, ma anche per le ripercussioni del fenomeno in quei paesi limitrofi come la Tunisia, impegnata nel processo di democratizzazione, ma tuttavia ancora politicamente, socialmente ed economicamente fragile, quindi facile preda e strumento di veicolazione per il terrorismo.
La Francia ha ambizioni in Libia e questo ha meno a che fare con i migranti e assai più con le risorse energetiche. Basteranno le elezioni propiziate da Macron a pacificare il paese?
Diciamo innanzitutto che le elezioni, soprattutto in un paese così frammentato come la Libia, non saranno la soluzione a tutti i problemi. È necessaria una riconciliazione territoriale e la stabilizzazione economica e sociale. E soprattutto serve la volontà politica dei libici, ma non so quanto essa sia radicata nella Libia di oggi. Nel caso si vada alle elezioni, deve esserci un processo democratico limpido, inclusivo e ben delineato a cui prendano parte tutte le regioni del paese e tutti gli aventi diritto al voto. Il problema principale del paese è, che se anche l’Europa e le Nazioni Unite si presentassero con una strategia di sostegno, non sapremmo a quale interlocutore rivolgerci.
Quale ruolo può avere l’Italia?
Dovremmo sostenere, con la partecipazione di Ue e Nazioni Unite, questo processo e il paese in ogni singola fase. Purtroppo, come già detto, troppi sono gli interessi nazionali, quelli economici dell’Italia inclusi, che precludono una qualsiasi strategia comune finalizzata a sostenere la stabilizzazione del paese. Finché ciascuno stato membro lavorerà dietro le quinte per perseguire i propri interessi, non credo avremo successo. E non parlo solo della Francia il cui presidente Macron, malgrado un’iniziale presa di distanza dalle scelte politiche di Sarkozy, sembra ora determinato a rafforzare il ruolo privilegiato francese nel paese. Parlo anche dell’Italia e dell’accordo del 2017 sui migranti, il cui effetto è stato quello di ridurre drasticamente gli arrivi e di rafforzare le milizie e le tribù libiche. Ma a quale prezzo?
Come giudica nel complesso il cambio nelle politiche migratorie adottato dal governo Conte?
Posso dire che siamo ancora in campagna elettorale e non ce ne siamo accorti o forse non vogliamo proprio smettere? Al momento non vedo alcun cambio delle politiche migratorie, piuttosto proclami elettorali e populisti ma nessun cambio di rotta o proposta concreta. La logica del “prima gli italiani” è pericolosa quando in gioco è la vita di persone in difficoltà. Attenzione, non solo da parte dell’Italia: ricordiamo cosa fanno Spagna e Francia con i migranti che cercano di arrivare sul loro territorio. Su Aquarius ha agito bene il governo spagnolo anche per cercare di ritornare tra le file dei protagonisti in Europa. Ma quella che si è intavolata è in definitiva una partita tra apertura e chiusura, diritto e vantaggi politici.
Invece?
Non è puntando i piedi che si cambiano, armoniosamente e comunitariamente, le norme europee. Bisogna stare attenti, perché gli “amici” da cui Salvini dice di essere sostenuto sono stati i primi a chiudere i porti e ad erigere frontiere. Pensiamo forse che Orbán avrebbe appoggiato l’Italia nel suo “no” alla riforma di Dublino, se la proposta non avesse previsto l’implementazione di un sistema di ricollocamento automatico e permanente? I trattati internazionali parlano chiaro: l’obbligo di non respingimento non può essere eluso.
Dunque cosa bisogna fare?
Per evitare di trovarsi ancora ad un bivio del genere bisognerebbe agire alla radice, smettere di considerare questi movimenti di persone in un’ottica emergenziale, che può dare vita solo a politiche di carattere securitario, ma accettare finalmente la forma strutturale di tali flussi. Le migrazioni sono sempre esistite, sempre esisteranno, il mondo non smetterà di muoversi perché c’è a chi non piace. Questo delicato momento storico che stiamo vivendo dovrebbe spingerci verso una strategia di medio-lungo periodo, non emergenziale ma inclusiva, razionale e fatta con i numeri alla mano e comprensiva.
Il Regolamento di Dublino va tenuto così com’è?
No, Dublino va assolutamente cambiato. In primis perché fatto prima delle Primavere arabe e credo si sia tutti d’accordo sul fatto che la situazione sia cambiata da allora. Cambiarlo si deve, ma non con questo approccio. La riforma va fatta e fondata sul principio di solidarietà, senza quello non andiamo da nessuna parte. Va fatta, ripeto, con i numeri reali alla mano: battere i pugni sul tavolo non serve molto. E va fatta pensando alla protezione di queste persone: le esigenze famigliari ed umanitarie dovrebbero essere il primo principio per stabilire quale sia lo Stato membro competente in materia d’asilo. Purtroppo il vertice Ue di Lussemburgo ha dimostrato i limiti in cui ci troviamo ad operare. 10-11 Stati hanno bocciato la proposta bulgara con 10-11 motivazioni diverse, senza una proposta concreta, un calderone di “no”.
L’Italia è stata lasciata sola o no, secondo lei?
L’Italia è stata lasciata da sola ma si è anche lasciata da sola. Da una parte, una gestione europea del fenomeno senza alcun rigore di logica, praticamente data in appalto ad attori esterni come Turchia e Libia, con conseguenze enormi, quella della questione diritti umani in primis. Dall’altra, l’Italia che ha perso la grande possibilità di lavorare su una strategia, ripeto, fondata sui numeri alla mano e finalizzata all’integrazione economica, sociale e politica di chi si trova da noi illegalmente. È inutile dare la colpa solo agli altri, noi siamo causa del nostro stesso male. La Bossi-Fini va superata immediatamente ma nessuno sembra volerlo fare.
Però il nostro paese ha speso, accolto e integrato più di altri. E’ d’accordo?
Un discorso a parte merita questa competizione tra Italia, Europa e tra Stati membri su chi ha speso di più o di meno. Come sottolineato in uno studio dell’European migration network (Emn) del Consiglio dell’Unione Europea, le spese più alte dedicate all’accoglienza per ogni migrante sono allocate dall’Olanda, con 63 euro, subito dopo Belgio con 51 euro, Finlandia con 49 euro e dalla Repubblica Slovacca con 40 euro. Meno dei 35 euro dell’Italia, sono la Francia, con 24 euro al giorno, e due paesi del gruppo Visegrad come Polonia e Repubblica Ceca. Inoltre vale la pena sottolineare che, nel Def 2018, la spesa per l’accoglienza dei migranti — che si prevede in crescita tra i 4,6 e 5 miliardi di euro quest’anno — rientra nel computo delle famose “clausole di eventi eccezionali”. In altre parole, la Commissione europea prevede la definizione di determinati margini di flessibilità nel rispetto del Patto di Stabilità e Crescita che, come si legge nel testo, “consentono deviazioni temporanee dall’obiettivo a medio termine (Omt) o dal percorso di avvicinamento al medesimo, nell’ambito delle regole vigenti”.
Con questo che cosa intende dire?
Con questo voglio dire che prima di denunciare di “essere stati lasciati soli”, dovremmo approfondire con più attente ricerche il contenuto delle dichiarazioni politiche. Ciò non toglie, ovviamente, che la riforma del sistema, sia dal punto di vista pratico che finanziario, andrebbe ricalibrata attraverso criteri più equi per tutti.
“La Ue faccia o taccia per sempre”, ha detto Salvini. Qui bisogna intendersi: per alcune cose l’Unione sembra necessaria, indispensabile, per altre appare inutile. Come uscire dalla crisi europea?
L’Europa, per quanto molto lontana dall’essere perfetta, non è la causa di tutti i mali. Se guardiamo alla questione migratoria ad esempio, ci troviamo in questa situazione perché abbiamo 28, quasi 27, politiche migratorie fondate su competenze nazionali a cui gli stati non vogliono rinunciare. Purtroppo questa è la realtà: vuoi per questioni di sicurezza nazionale, vuoi per populismo, gli stati membri non rinunceranno mai alla difesa delle proprie frontiere. Aggiungo la ripartizione delle quote migranti: l’Europa ha delineato un piano che sistematicamente non viene rispettato dalla maggior parte degli stati membri, gruppo Visegrad in primis. E non si tratta solo di migrazione. Pensiamo alla possibile riforma dei trattati per cui non vi è alcuna volontà politica.
E quindi, senatrice Bonino?
Dobbiamo trovare finalmente quel coraggio che ci permetta di fare il grande salto verso una sempre maggiore integrazione politica in diversi settori, dalla difesa alla diplomazia, dalla governance economica alla ricerca, con l’obiettivo di realizzare finalmente quella federazione leggera o, come io preferisco di gran lunga chiamarla, gli Stati Uniti d’Europa.
Ma nello specifico della questione migratoria, secondo lei che cosa bisognerebbe fare? Difendere le frontiere esterne? Ripartire gli immigrati? Costituire hotspot in Nordafrica? O cos’altro?
Innanzitutto è necessario ricordare che l’assetto intergovernativo, alla base della gestione delle politiche migratorie, è il motivo per cui ci ritroviamo spesso ad affrontare problemi così spinosi. L’articolo 4, paragrafo 2, del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea attribuisce all’Unione una competenza concorrente nella gestione dello spazio di libertà, sicurezza e giustizia, che si occupa di disciplinare le politiche di immigrazione e asilo. Avanzare verso una gestione più propriamente e genuinamente comunitaria dei flussi certamente diminuirebbe le possibilità che, per farsi ascoltare, i paesi come l’Italia sbattano i piedi in questo modo.
Da dove si comincia?
Ricordiamoci della legge appena varata da Orban, secondo cui qualsiasi Ong, nonché qualsiasi cittadino, che fornisca aiuto ai migranti che non hanno i titoli per chiedere asilo politico potrà incorrere in pene detentive. Questo è uno dei punti su cui l’iniziativa Welcoming Europe, promossa tra gli altri dai Radicali italiani, si impegna a lavorare. Decriminalizzare la solidarietà credo sia alla base della costruzione di un sistema più equo, più innovativo, che porti avanti lo slogan “Prima le persone”, anziché un popolo specifico. Quello che posso dire e che ho ripetuto per mesi è una cosa: un buon punto di partenza sarebbe la creazione di canali legali e sicuri di immigrazione e di ingresso in Europa. Dovrebbe essere la base, se guardiamo ai valori su cui si fonda il progetto europeo.
Sul sussidiario l’ex ministro Frattini ha formulato una proposta per l’attuale governo: “un coordinamento europeo non solo nella distribuzione dei migranti, ma nell’organizzazione degli sbarchi”, anche quelli che “non avvengono sotto bandiera europea, cioè da parte di navi private, come sono quelle delle Ong”. Che ne pensa?
Come già sottolineato, qui è in gioco l’assetto intergovernativo della gestione europea dei flussi. L’Unione ha competenza limitata, e fino ad ora, fatto salvo per i meccanismi temporanei di ricollocazione del settembre 2015, non ha espresso la volontà di farsi carico di ulteriori responsabilità. E comunque penso che se anche non ci fossero le navi delle Ong, gli sbarchi continuerebbero in altre forme ed attraverso altri canali: la disperazione di queste persone che fuggono da guerre, violenze e fame li spinge a fare di tutto e accettare tutto.
Il suo scenario, le cose da fare subito.
Se guardo all’Italia, al suo potenziale ma soprattutto a questo nuovo governo direi basta con la campagna elettorale, si cominci a lavorare seriamente. Mi preoccupa tuttavia l’indirizzo che questo governo sta prendendo, con dichiarazioni quasi quotidiane, soprattutto su temi a me cari come i diritti civili e le libertà individuali. E poi ovviamente la questione migrazione di cui ho già ampiamente parlato. Attendo inoltre di vedere quale sarà la linea di questo governo sulla giustizia e l’inefficienza statale, lo dico pensando soprattutto ai 5 Stelle, e come verrà affrontata la questione Mezzogiorno.
E guardando all’Europa?
Se guardo invece all’Europa, le cose da fare subito sono tante, troppe. Le elezioni europee del 2019 si avvicinano e neanche ci rendiamo conto di che cosa saremo chiamati a votare. Queste elezioni saranno di vitale importanza. Saranno le prime elezioni ad esempio senza seggi assegnati al Regno Unito. Ma soprattutto saranno elezioni che vedranno un’impennata dei consensi per i partiti anti-europeisti e per i populisti. Se guardo a Italia, Austria, Francia (dove la Le Pen è sempre lì, ricordiamocelo), Slovenia, Ungheria, Polonia, vedo uno scenario che mi preoccupa davvero molto. La direzione da prendere è più Europa e più Unione, mentre qui mi sembra che si vada nella direzione opposta: meno Europa se non addirittura basta Europa. Un’Europa più forte politicamente diventerebbe più forte economicamente ed avrebbe un potere negoziale più forte. Pensiamo alla direzione che stanno prendendo i rapporti transatlantici.
Lei cosa pensa su questo punto?
Mi chiedo: cosa abbiamo intenzione di fare? Aspettare e ingoiare i rospi mentre il presidente Trump smantella uno ad uno tutti i pilastri della nostra tradizionale collaborazione? Vogliamo rispondere con una strategia o siamo lì ad attendere che il G3 composto da Cina, Russia e Stati Uniti ci inglobi? Siamo ormai entrati in una fase di disordine e caos globale in cui l’Europa mi sembra vagare ancora incerta sul da farsi. Dobbiamo difendere l’Europa e difendere tutti quei successi raggiunti, che sono il risultato di un lavoro estremamente faticoso. Penso anche all’accordo sul nucleare con l’Iran: non possiamo mollare e l’Europa non deve mollare su questo punto, altrimenti le conseguenze saranno ben peggiori di quelle che immaginiamo.
(Federico Ferraù)