Nelle due edizioni de La sinistra nella storia italiana, Massimo Salvadori, in fondo un conformista del pensiero di sinistra, ripete una considerazione che è quasi doveroso condividere: “Il modo in cui si reagisce alle sconfitte costituisce sempre un’illuminante cartina di tornasole della capacità o meno di una forza politica di imparare le lezioni che esse impartiscono”. Riferendosi nel suo libro alla sconfitta del 2001, Salvadori specifica: “Quella subìta dalla sinistra italiana alle elezioni del 2001 non è certo una sconfitta frutto di contingenti condizioni sfavorevoli: è invece lo specchio di ritardi e insufficienze profondi accumulatesi negli anni”.



A ben vedere questa considerazione dello storico dovrebbe essere ripresa in questi giorni e nei prossimi mesi, con una grande auto-confessione della sinistra sulle contraddizioni, sulle ambiguità, sulle acrobazie fatte in tanti anni dalla sinistra predominante nella storia italiana.

Più che ai tanghi tragicomici dei Salvini, Di Maio e Conte, la sinistra dovrebbe pensare a fare veramente politica, a confrontarsi con la realtà e a trovare una visione realistica della società, a medio e lungo termine, per ridare rappresentanza a quelli che subiscono nel vecchio Occidente democratico uno degli impoverimenti più gravi della storia e che devono far fronte a diseguaglianze sociali impensabili solo fino a trent’anni fa.



E’ vero che fai sempre parte di un mondo ricco, ma l’incertezza di un arretramento diventa una legge sociologica spietata, che fa traballare tutti gli impianti sociali e, di riflesso, quelli politici. In più, questa incertezza, unita alla confusione e anche all’angoscia di fronte a trasformazioni epocali del mondo del lavoro, della nuova divisione e organizzazione della produzione, getta nello sgomento e fa reagire in modo scomposto masse di cittadini che si ritrovavano su posizioni sostanzialmente democratiche e speravano nell’affermazione di una sinistra sempre più democratica. In questo modo è andato in crisi il mondo di sinistra.



E’ certamente vero che tutto questo non riguarda solo l’Italia, ma è altrettanto vero che solo l’Italia ribadisce la sua incredibile vocazione all’anomalia, alla rottura traumatica degli schemi, portando due partiti cosiddetti populisti o anti-sistema al governo del Paese, tanto da scuotere tutta l’impalcatura della costruzione europea.

Per la Ue ci fu una prima sveglia nel 2014, quando cominciarono a prendere voti un po’ ovunque i cosiddetti populismi. Ma i grandi ragionieri di Bruxelles non si scomposero molto: avevano mollato e condannato la Grecia, salvando le banche tedesche e francesi; continuavano nella loro politica di ottusa austerità; in fondo plaudivano all’Italia, dove, con Matteo Renzi al governo, il 40 per cento dell’elettorato esaltava di fatto un giovane leader di cosiddetta sinistra ed europeista.

Era un’affermazione importante, in un’Italia che pur aveva subìto i salassi di sangue operati dal “duo Fasano” dell’economia italiana (Mario Monti ed Elsa Fornero) con il conforto della musica della “banda” Giavazzi&Alesina. All’estero la coppia rosa francese “Sarkò e Carlà” brindava al ricordo dei bombardamenti di tre anni prima in Libia, non riuscendo a comprenderne gli effetti devastanti che avrebbero avuto, prima sull’Italia e poi sull’Europa.

A ben vedere, quella vittoria di Renzi per la sinistra italiana è stata il canto del cigno.

Nel giro di quattro anni la musica è cambiata completamente. L’Italia non è la Grecia, ma è un Paese fondatore dell’Unione, con una grande economia e 60 milioni di abitanti. L’improvviso cambiamento italiano, da un assenso europeista convinto e diffuso a una grande disillusione per la mancanza di ripresa economica e la persistenza di problemi sociali di vario tipo, ha finalmente sbattuto giù dal letto la grande casalinga Angela Merkel e il fenomeno dell’Ena, Emmanuel Macron, il sempre poco sobrio Jean Claude Junkers e pure il sedicente razionale Pierre Moscovici. Tutti questi “pensatori” non guardano solo alle prossime scadenze, ma soprattutto alle elezioni europee dell’anno prossimo e all’Italia in subbuglio, che possono provocare un terremoto.

In tanti Paesi europei i partiti tradizionali sono andati al minimo storico, ma aree di sinistra democratica occidentale esistono ancora sotto diverse denominazioni. Solo in Italia l’esplosione della sinistra può generare un contagio letale. E il motivo sta nella storia italiana della sinistra, che gli europei non conoscono e gli italiani continuano a mistificare.

Massimo Salvadori, rifacendo la storia di questa sinistra italiana, sottolinea la sua ambiguità di fondo, ricordando che dal 1912 al 1999 la sinistra italiana ha avuto sempre, anche recentemente, un’egemonia massimalista, la voglia di “un’uscita dal capitalismo”, di una generica “democrazia progressiva”, di una “fuoruscita dall’Occidente”.

Per un bilancio storico affrettato basterebbe pensare alle quattro correnti all’interno della sinistra prima del fascismo: riformisti, massimalisti, ordinovisti, comunisti all’Amedeo Bordiga, tutti “l’uno contro l’altro armato”. Non è probabilmente un caso che, nella tragedia europea della Prima guerra mondiale, arrivi il fascismo prima in Italia che il nazismo in Germania e che Hitler indichi in Mussolini il “suo maestro”.

Resta nella sinistra, sempre, il livore anti-riformista, documentato da Angelo Tasca in Nascita e avvento del fascismo, con un peso determinante, che viene dimenticato solo dai mistificatori storici ufficiali italiani.

Inutile ricordare la doppiezza del “Migliore”, il compagno Palmiro Togliatti, che resta ancora un esempio, nonostante la tragedia del 1956 in Ungheria; nonostante il coraggio di Giorgio Amendola, che si batte per superare il leninismo e viene quasi “linciato” nel suo partito; nonostante la lezione di Umberto Terracini, espulso nel 1938 dal Pci perché si opponeva al “patto Molotov-Ribbentrop” e che, ritornato nel Pci, riconobbe prima della morte che a Livorno nel 1921 aveva ragione Filippo Turati con quel suo grande discorso.

La costante della sinistra italiana, a maggioranza massimalista (quella che ha sempre detto che il “capitalismo è morto”, che “bisogna fare come in Russia”, che “è necessaria la rivoluzione ma non il ribellismo”, in modo che così non si faceva nulla) è quella di una serie infinita di occasioni perdute, soprattutto di inserirsi, a parte la corrente riformista, nella grande democrazia socialista occidentale.

La “musica” di questa sinistra non cambia mai: discredito per i riformisti come Turati e Treves, per i liberal-socialisti come i fratelli Rosselli, martiri uccisi da sicari e bollati da Togliatti come “imbecilli” che salvano il capitalismo, e poi il disprezzo per Saragat, la condanna storica per Nenni, la demonizzazione per Craxi.

Al contrario, Enrico Berlinguer, che sta in bilico su una problematica Terza via, tra “lezioni del leninismo insuperabili”, “democrazia progressiva” e fuoruscita dal “capitalismo occidentale”, oltre alla “questione morale”, che nel Pci comprendevano in pochi (anche per il molto oro che era venuto e veniva da Mosca), diventa un “santo”.

Ma anche dopo Berlinguer, al XVIII congresso del 1986, la stragrande maggioranza dei delegati esprime la convinzione che l’Unione Sovietica (che sta esplodendo) sia il Paese che meglio aveva realizzato, più di tutti gli altri, l’ideale della giustizia sociale. Da far venire i brividi!

Perché, quindi, stupirsi delle acrobazie di Achille Occhetto, di Massimo D’Alema, di Walter Veltroni? Se per D’Alema c’è da salvaguardare un “timbro socialdemocratico”, per Veltroni c’è ormai l’americanismo trionfante di Bill Clinton, la crisi dello statalismo di matrice tanto marxista quanto keynesiana. Con tutte le conseguenze della globalizzazione a spron battuto, della finanziarizzazione, delle banche che fanno tutto, dei capitali che vanno e vengono dove vogliono.

Anche queste cose sono spesse volte dette a metà, in modo tanto confuso, che nessuno, nemmeno il parolaio Matteo Renzi, riesce a sostenere con convinzione. Tutte questioni che confondono.

Forse tutta questa storia ha un peso determinante da valutare. Al momento non sembra che si abbia voglia di fare grande chiarezza. Sono due le proposte emerse sinora. La prima è quella di Carlo Calenda, una sorta di Union sacrée repubblicana che difenda l’europeismo. Un programma minimo, si potrebbe dire, ma forse realistico, viste le circostanze in cui ci si muove. La seconda è quella di Gianni Cuperlo, che invita a ripensare ai temi della modernità, a quello che propone e a quello che può caratterizzare nel grande cambiamento epocale un mutamento di linea politica.

Forse una sincera confessione di tanti errori, potrebbe cominciare a portare soluzioni nuove e importanti.

Ma di fronte all’importanza che si dà alle mosse dei due sgangherati ballerini di tango, Di Maio e Salvini, c’è da ripensare a un’autentica rinascita politica della sinistra, a una visione a medio e lungo termine di una grande area democratica occidentale.