Ne sono passati quattro di mesi, ma ne passeranno sicuramente molti altri prima che nella cosiddetta sinistra italiana si apra un serio dibattito di analisi o di autocritica (così si diceva una volta) costruttiva e realistica sulle ragioni di una sconfitta, quella del 4 marzo e quella più recente delle comunali, che alcuni giudicano storica e altri definiscono addirittura epocale.
Fa impressione invece constatare che ci sarà, dicono, un’assemblea del Partito democratico il 7 luglio, che dovrebbe (ma chissà quando) preparare un congresso e che nel frattempo si sia insediato un governo che viene eufemisticamente chiamato giallo-verde, per non definirlo seccamente di destra, quale è.
Fa impressione che nello stesso tempo compaia ogni tanto qualche rifondatore, occasionale e improvvisato, di questa cosiddetta sinistra che scrive sui giornali più disparati e compaia nelle più incredibili trasmissioni televisive per alimentare un dibattito del tutto inutile e a volte surreale, con oratori che si arrampicano sugli specchi.
Aggiungiamo inoltre che, nella totale assenza di idee, sembra prendere spazio, persino in alcuni settori di questa sinistra, quella tesi stravagante per cui, vivendo ormai in un’epoca post-ideologica, la sinistra non esiste più, non ha più ragione di essere, e la contrapposizione tra sinistra e destra, tra le necessità di chi fa un lavoro subordinato per vivere e chi detiene la ricchezza, sono scomparse o destinate a scomparire.
E’ la grande vittoria per cui si è battuto Warren Buffett, grande speculatore sui mercati finanziari di tutto il mondo, che si gode la tranquillità di “Aver vinto la lotta di classe. C’è stata, ma questa volta l’abbiamo vinta noi ricchi”. Irridente e insopportabile, ma realistico nella sua brutalità.
La sinistra è in crisi in tutto il mondo, ma questa sinistra italiana può battere ogni record: può letteralmente sparire se resta in queste condizioni di organizzazione e con l’assenza di considerazioni autocritiche sulla sua storia.
Eppure un grande spazio per una sinistra credibile e attenta alla lettura della realtà ci sarebbe, eccome, in Italia. A chi dovrebbero rivolgersi i cinque milioni di italiani che, secondo l’Istat, vivono in assoluta povertà? A chi dovrebbero rivolgersi almeno altri cinque milioni circa di persone che vivono appena sopra il livello di povertà? E poi i battaglioni di precari, disoccupati, persone senza speranza e lavoro? Il tutto che avviene in uno dei periodi storici dove non è mai stata storicamente così grave e profonda la differenza nella distribuzione della ricchezza, concentrata ormai in poche mani a danno di masse di cittadini in affanno perenne.
Ecco nel frattempo comparire Carlo Calenda che propone un “fronte repubblicano”, una soluzione da trovare “andando oltre il Pd”, a pensare a uno “Stato forte, ma non invasivo”. Parole magiche per persone che hanno perso o stanno perdendo il lavoro.
Poi il tranquillo Gianni Cuperlo che invita a ripensare alla “modernità, al ruolo della sinistra nella modernità”. Cuperlo chiede “scusa” al popolo della sinistra. Al contrario di alcuni più agguerriti, come Ettore Rosato, che quasi grida: “Vinceremo la prossima volta”.
Seguono naturalmente nei suggerimenti alcuni commentatori, tra grandi giornali che fino a qualche tempo fa demonizzavano con disprezzo la politica, la “casta” e magari votavano pure 5 Stelle.
A seguire, tutta la sequenza dei “veleni” all’interno e nelle vicinanze del Pd, dove ci sono quelli che vogliono far fare a Matto Renzi la fine di Catilina, prendendolo come unico responsabile della sconfitta e persino del mancato accordo per un governo Pd-M5s: voleva la Boschi nell’esecutivo come ministro e a lui offrivano il ministero degli Esteri. Bisogna sempre trovarsi un alibi alle proprie responsabilità.
Il tutto, in una ridda di voci da “vecchia portineria” e nemmeno una riflessione storica del passato, del passato prossimo, del presente e del possibile futuro. Renzi ha certamente fatto una sequenza incredibile di errori e si è comportato con incredibile superficialità. Ma non può essere considerato l’unico responsabile di una sconfitta che si definisce storica o epocale.
Qualche giorno fa, riguardando La sinistra nella storia italiana di Massimo Salvadori, facevamo notare la secolare vocazione massimalista della sinistra italiana, almeno fino al 1999. E, pur dichiarandosi riformista dopo, questa sinistra il riformismo l’ha sempre abiurato e ben pochi lo hanno compreso e praticato.
Si faceva notare che ancora al 18esimo congresso del Pci, nel 1986, la stragrande maggioranza dei delegati pensava che l’Unione Sovietica era “la patria della giustizia sociale”.
Una persona che oggi ha circa 50 anni ed cresciuto in una famiglia operaia comunista, magari vicino al famoso viale Sarca a Milano (dove c’erano Breda, Falck, Pirelli) ha dovuto ascoltare i riferimenti al leninismo e persino a Breznev e a Andropov, gli “dei” dell’Urss. Poi il riferimento principale, dopo il crollo del Muro e del comunismo sovietico, è diventato il pool di Mani pulite della Procura di Milano, con una parola d’ordine che ricordava la massima di Andrej Januarevic Vysinskij: “Le sentenze si accettano e non si discutono!”. Ma dopo tutto questo ecco l’ultimo colpo, insieme al cambiamento di nome dei vari partiti e l’approdo al neoliberismo rampante non tanto di Ronald Reagan, ma a quello di Bill Clinton, che aveva come mentore alla Fed sempre Alan Greenspan, grande suggeritore della spinta finanziaria mondiale, maturata nella testa dei Milton Friedman e dei von Hayek.
Ora per questo cinquantenne, anche se dotato di capacità critica e non essendo un analfabeta funzionale (quelli che spaventano tanto Calenda), il passaggio da Breznev a Davigo e poi a Clinton deve essere stato abbastanza problematico, se non destabilizzante.
Certamente non deve essere stato semplice spiegarlo a Imola, ad esempio, città dove è nato Andrea Costa, primo socialista italiano che si unì alla bella Anna Kuliscioff, appena arrivata in Italia e in fuga dalla polizia zarista.
Qualcuno può pensare che citiamo ricordi del passato molto lontani. Giusto. Ma ad esempio, dove era questa sinistra, ora riformista, dal 1992 in avanti, quando scatta per l’Italia l’epoca delle privatizzazioni senza liberalizzazione? Quando il grande democratico Carlo De Benedetti, fa, con Infostrada, una plusvalenza in miliardi da capogiro, o quando i Benetton riescono, attraverso la concessione delle Autostrade, a vendere tutti i vecchi marchi delle aree di parcheggio a Carrefour per 4mila miliardi, dov’era la sinistra? Sono solo un paio di esempi, ma ripetiamo: dov’era la sinistra in quel periodo? Dormiva, si lamentava o era in Parlamento e saltuariamente al governo?
Quanti personaggi, che ruotavano intorno alla “sinistra riformista rifondata”, erano contemporaneamente consulenti di banche d’affari americane? E, anche dopo la grande crisi del 2007, perché si è continuato a dire che il “liberismo è di sinistra”? Perché si è picchiato duro con la pressione fiscale a livello generale, mentre le grandi piattaforme multinazionali pagavano cifre irrisorie all’Agenzia delle entrate e le grandi aziende italiane, quelle della “borghesia stracciona”, andavano all’estero a fissare la loro sede legale per eludere il fisco? Dove era la sinistra?
Forse dormiva sempre, guardandosi bene — tranne che con qualche esponente (Fassina, D’Attorre, Stumpo) — dal criticare un sistema economico e un capitalismo che era ritornato ai tempi di Say e di Bentham. E non era più il capitalismo del dopoguerra, con i sindacati, il welfare, le leggi sulla concorrenza, gli interventi statali nei cicli negativi e una distribuzione della ricchezza che non era contemplata all’insegna delle stock-option e da una finanziarizzazione con i derivati a gogo.
In Italia l’attuale sinistra è fallita e, anche se a volte sembra più attenta ai diritti civili, non può certo trasformarsi in un partito radicale di massa. La sinistra deve affrontare il nocciolo dello scontro sociale che il sistema economico riserva da almeno tre secoli alle parti sociali. Se rileggessero Karl Marx, in questa cosiddetta sinistra, tanti vedrebbero quanto pagano per gli errori commessi nella lettura della realtà e quanto sono prigionieri delle scelte passate: il morto che afferra il vivo.