Probabilmente il suicidio di Bruno Binasco, un noto manager alessandrino legato a Marcellino Gavio (autostrade), avrà una spiegazione più semplice di quanto si possa immaginare o cercare di spiegare. Si è impiccato nella sua casa di Tortona, aveva 73 anni e molte storie da raccontare, soprattutto sull’inchiesta di “Mani pulite”, per cui nel 1992 entrò e uscì dal carcere per ben sei volte. In una di queste occasioni poco simpatiche, Binasco fece anche un nome molto scomodo, quello del “compagno G”, cioè di Primo Greganti, che si potrebbe definire impropriamente un brasseur d’affaires del vecchio Pci.
In poche parole, Bruno Binasco disse che Greganti aveva preso un miliardo per poi girarlo all'”immacolato” (in quell’epoca immaginifica) partito comunista, che forse non veniva più alimentato o solamente aiutato dall’oro che arrivava direttamente da Mosca, tanto per ricordare i titoli dei libri di Gianni Cervetti e Valerio Riva.
Ma pur facendo parte dei 20mila indagati di quell’inchiesta che avrebbe dovuto far pulizia della grande corruzione italiana, di cui invece si discute ancora animatamente e si dibatte dopo un quarto di secolo, Binasco uscì dall’inchiesta dei magistrati di Milano con la fedina penale pulita, per una serie di assoluzioni e di prescrizioni di reato.
Ma i ricorsi storici per i manager e i politici di quell’epoca sembravano scritti dal destino e Binasco ritornò in scena nel famoso “sistema Sesto”, quando fu messo sotto accusa l’ex presidente della Provincia di Milano, Filippo Penati. Anche lui sotto accusa, Binasco fu poi assolto come Penati e quindi liberato da ogni pendenza con la giustizia.
Fatto incredibile, tipicamente italiano di questo lungo periodo storico, Binasco era conosciuto, amico — come si diceva — di Marcellino Gavio e anche vicino a un personaggio come Fabrizio Palenzona, uomo politico e poi finanziere di rango in Unicredit e indirettamente in Mediobanca, ma la sua “popolarità” e la sua “conoscenza pubblica” è dovuta purtroppo all’inchiesta che ha stravolto la storia della repubblica italiana. E quindi, inevitabilmente, il suo triste suicidio è destinato ad alimentare le voci di una vita diventata triste, tragica, contrassegnata da dubbi e accuse che si sono poi rivelate infondate.
E’ un calcolo amaro quello che si fa di “Mani pulite”. I numeri impressionanti sono: gli indagati, oltre ventimila; i condannati, circa un migliaio; i suicidi che sembrano qualche decina ufficialmente. Qualcuno ha parlato recentemente di oltre 40 persone. Aggiungiamo poi la morte giudiziaria, decretata per via mediatica (giornali e televisioni), che mettevano sullo stesso piano un avviso di garanzia e un arresto con un bel titolo in prima pagina, relegando le riabilitazioni magari nella pagina delle lettere al giornale.
“Mani pulite” o “Tangentopoli” avrebbe dovuto segnare il passaggio dalla prima all’ipotetica seconda repubblica, che però nessuno ha mai bene capito che cosa fosse o sia: non è cambiata la Costituzione, ma sono stati eliminati per via giudiziaria cinque partiti che avevano garantito nel dopoguerra la democrazia italiana.
I partiti superstiti, sotto nomi diversi, si rifacevano a scelte vagamente ideali, soprattutto al leninismo a al mussolinismo. Deve essere stato uno scherzo della razionalità della storia, che prima si presenta sempre come tragedia e poi si ripete quasi sempre come farsa.
In tutto questo, come paradosso, c’è da dire che la corruzione, nonostante la “grande inchiesta”, dilaga e provoca anche delle incredibili fratture, a stento ridimensionate, all’interno della stessa magistratura. Ad esempio tra la cosiddetta Anac, l’Autorità anti-corruzione, presieduta da Raffaele Cantone, e alcuni “feudi” giudiziari o procure come quella di Milano. E’ avvenuto in questi giorni.
Che cosa è accaduto? Dall’Anac a Milano, da Milano a Brescia, da Brescia a Venezia e alla fine a Trento, sembra che ci sia stato una sorta di giro dell’oca di segnalazioni di possibili fatti di corruzione, in punta di diritto naturalmente, sugli appalti comunali con fondi Expo per l’informatica. Alla fine, il fascicolo giudiziario, per tutti questi passaggi, sta andando in prescrizione. Il groviglio giuridico è un caso classico degli addetti ai lavori e una riprova di una giustizia italiana che fa acqua da tutte le parti.
A questo punto, il procuratore di Milano, Francesco Greco, ha pronunciato una frase di questo tipo: l’Anac “ha trasmesso numerosi illeciti da cui si potevano desumere fatti di corruzione”. Ma Greco fa una considerazione ulteriore: “Il ritardo con cui le notizie sono state trasmesse, e soprattutto le modalità di documentazione presso gli enti coinvolti, hanno determinato una discovery anticipata, sostanzialmente rendendo inutili ulteriori indagini nei confronti di soggetti già allertati”.
L’Anac fa filtrare malumore, anche se Cantone non commenta. Poi Greco stesso dirà che “il lavoro di Cantone è encomiabile” e quindi occorre solo utilizzare le segnalazioni in modo più tempestivo. Nessuna polemica ufficialmente. Alla fine tutto si calma, si sottolinea lo spirito collaborativo e quindi si può parlare di una tempesta in un bicchiere d’acqua.
Ma chissà se andrà avanti sempre così, in un’atmosfera che ha il sapore dell’ipocrisia sussiegosa. Esiste un dossier giustizia all’esame anche di questo governo, ma non sembra che, prescrizioni a parte e pene più severe, ci siano in vista grandi cambiamenti.
La famosa separazione delle carriere, caratteristica di tutti i paesi democratici, prescritta dallo stracitato Montesquieu (sarebbe un abuso se giudice e pubblica accusa avessero la stessa funzione o appartenenza) sembra completamente dimenticata.
Ma non allarghiamoci troppo: siamo nell’Italia della quasi post-democrazia e quindi rifacciamoci solo alla storia recente, non ai principi e neppure al dibattito costituzionale, dove un uomo come Piero Calamandrei si è battuto invano per la separazione delle carriere.
L’Italia è il Paese delle procure che vanno per conto loro, dove alcuni procuratori, del tutto indipendenti o sin troppo indipendenti, mettono sotto accusa, talvolta, “a rampazzo” per dirla con brutalità.
L’Italia è un paese sotto osservazione anche per la sua giustizia e per la lotta alla criminalità, che lo stesso Fbi conduce con una disinvoltura a volte strana nel coinvolgere magistrati italiani, suscitando malumori tra le “procure feudo”.
Raffaele Cantone non sembra un uomo sgradito agli americani. Il fatto è noto, e forse procura qualche invidia a Cantone così come è accaduto ad altri magistrati italiani in passato. Più volte il presidente dell’Anac è stato oggetto stranamente di polemiche. Piercamillo Davigo non gli risparmiò alcune critiche, qualche mese fa, direttamente in una trasmissione televisiva.
L’Italia infine, dove la corruzione continua a dilagare, nonostante la grande inchiesta del 1992, non ha mai voluto fare una commissione d’inchiesta su “Tangentopoli”. Un fatto per lo meno strano in un paese dove una commissione d’inchiesta non si rifiuta a nessuno. E pensare che per quella ipotetica commissione, che a un certo punto si prospettò, c’è un memoriale di Bettino Craxi, di 24 pagine, che pone domande a cui nessuno in questi anni ha dato risposte convincenti.
E’ la strana “certezza del diritto” all’italiana, dove si preferisce evocare a grandi linee interventi falsamente taumaturgici, magari mitizzando anche i disastri ottenuti e i risultati mai raggiunti. Meglio vivere nel pressapochismo, nell’incertezza e nella confusione storica, tra suicidi, polemiche malamente sopite. La verità fa male, come diceva una canzone di Caterina Caselli. E’ lo spaccato di questa Italia del ventunesimo secolo.