E’ possibile, a meno di sconquassi inaspettati, che l’attuale governo giallo-verde, il sodalizio tra pentastellati e leghisti, raggiunga le elezioni europee del prossimo anno, dove si deciderà tanto del futuro destino dell’Unione Europea. L’intreccio tra problemi nazionali e quelli comunitari peserà ancora di più che in passato, soprattutto per due problemi fondamentali: le scelte di politica economica e la questione dell’immigrazione, dove l’Italia ha dovuto subire un isolamento intollerabile, come ha “inaspettatamente” dichiarato sia la grande casalinga Merkel, sia il fratello carolingio Moscovici. Visto l’attuale stato dell’Unione, con i cosiddetti “populismi” che si rafforzano negli stati europei, con l’anomalia italiana che ha partorito l’ircocervo Salvini-Di Maio, sembra a questo punto inevitabile un passaggio di assestamento, di ripensamento e anche di riforma dell’Ue: per rilanciarla, per non farla cadere a pezzi e non lasciare che l’europeismo rimanga un grande traguardo incompiuto. 



Lo può fare un governo di destra come quello uscito dalle urne del 4 marzo? E’ un rischio che si deve correre, non c’è altro da fare, dato che la sinistra e il supposto centro di questa Italia sembra siano impegnati a contemplare i loro errori e le loro ferite. L’attuale governo ha varato un programma di riforme economiche, nel famoso contratto, che sembra un libro dei sogni. Non è ben chiara la flat tax con doppia aliquota, così come appare abbastanza ambiguo il “reddito di cittadinanza”: è un rafforzamento dell’attuale welfare o una riforma alla Milton Friedman senza più welfare? 



Poi ci sono le famose coperture, la sostenibilità della spesa pubblica di fronte all’impegno dei parametri sottoscritti: problemi che dovranno essere affrontati con prudenza e spirito costruttivo. Ora, si tratta di chiarire che la politica economica degli ultimi anni è stata sostanzialmente deflazionistica e ha mortificato qualsiasi progetto di crescita reale. Se si guarda solo la carta geografica europea, si possono vedere Paesi che sono impegnati in una risalita dalla crisi del 2007 con tendenze differenti. Il motivo è anche abbastanza comprensibile, perché l’Europa ha una varietà di realtà economiche che difficilmente possono rispondere solo ed esclusivamente al criterio della moneta unica senza altri necessari accorgimenti.



L’euro doveva essere accompagnato dalla costruzione di un vero Stato federale, da un’autentica banca di ultima istanza, da una fiscalità comune, persino da una difesa comune. Per lo meno, si poteva pensare alla creazione della moneta unica con parametri meno intransigenti. In definitiva, era necessaria una Costituzione comune, che fallì nel 2004, mentre nello stesso tempo l’Unione si allargò a dismisura dal nucleo dei soci fondatori. Se il 2004 fu un fallimento, il 2007, con la crisi mondiale, fu l’origine del primo raffreddamento verso l’europeismo. Le diverse situazioni nazionali, le differenti realtà economiche hanno innescato un’instabilità europea complessiva che ha portato alla crisi greca, a quella italiana, a quella spagnola e a quella portoghese. Il tutto si è aggravato con il disordine arrivato dopo le “primavere arabe”, dopo il loro fallimento e la conseguente ondata migratoria, con risposte differenti e in alcuni casi demenziali e superficiali, in altre circostanze miopi e xenofobe, per non dire di peggio. 

Di fronte a simile cambiamenti, per molti aspetti epocali, la risposta del “pensiero unico” neoliberista è stata disastrosa. La risposta con l’austerità e il continuo, ossessivo richiamo di attenzione al debito, ha mortificato qualsiasi possibilità di rilancio attraverso l’intervento statale e il ritorno alla domanda aggregata per mettere in moto il moltiplicatore. Può anche darsi che la teoria keynesiana sia superata nell’epoca della globalizzazione, ma la risposta della sola austerità e del richiamo costante al debito, ha innescato la spirale dei cosiddetti “populismi” di ogni genere, cresciuti certamente all’ombra di semplificatori e demagoghi, ma anche di ottusi ordoliberisti, che hanno creato un terreno fertile con la precarietà sul lavoro, l’impoverimento di intere classi sociali, la disoccupazione, la crescita stentata e l’impressionante espansione delle disuguaglianze sociali, la via della protesta contro un sistema economico fallimentare e contro la stessa democrazia rappresentativa.

Ma oltre a questo disordine europeo, c’è un fatto ulteriore che non può passare sotto silenzio. Dopo anni, assistiamo a una crisi di rapporti tra l’Unione Europea e gli Stati Uniti che appare ogni giorno sempre più grave. Nei giorni scorsi è apparsa in tutta la sua gravità la crisi della Deutsche Bank, la più grande banca tedesca, accusata dalla Fed americana di “avere troppi rischi nel suo portafoglio” e declassata dall’agenzia di rating Standard&Poor’S. E non c’è solo questo nell’attacco americano alla Germania, c’è l’accusa di avere un sistema bancario che è “disastroso”, con tutte le Sparkasse tedesche indebitate e sovvenzionate dalla Stato. Un sistema bancario che ha in pancia, secondo alcune voci, 3600 miliardi di euro di “derivati”. Non si comprende se l’attacco americano sia un pretesto per favorire la fine dell’Ue o una marginalizzazione dell’Europa nei nuovi equilibri politici mondiali. E’ certo che, in questa complessità, il compito degli stati europei che vogliono rilanciare l’Europa deve muoversi con grande accortezza, determinazione e volontà unitaria. Un compito non facile.