Tutto fermo, bloccato, paralizzato, come se i parlamentari fossero stati trasformati in statue di sale. Il governo è in carica da 8 giorni, ha ricevuto la fiducia a inizio settimana, ma nelle Camere resta la palude. Un panorama fisso, dove nulla si muove. Bisogna dare tempo al tempo, dicono i benevoli. Lasciateli lavorare, fanno eco quelli che vent’anni fa avevano fatto propria la frase coniata da Silvio Berlusconi. Lasciateci lavorare, appunto, fatevi da parte e dateci tutto il tempo che ci serve.



La scusa ufficiale è che il premier si trova in Canada al G7 scortato dal neoportavoce Rocco Casalino e nulla si fa senza di lui, anzi senza di loro. Ma un conto sono le azioni del governo, un altro il lavoro parlamentare. Ora una maggioranza si è formata, è stato posto un discrimine tra chi sta al governo e chi all’opposizione, e quindi potrebbe partire il valzer delle nomine nelle commissioni la cui costituzione, com’è noto, deve rispettare rigide quote per dare spazio anche alle minoranze. Eppure non si agita una foglia né a Montecitorio e nemmeno a Palazzo Madama.



Il governo Conte vive per ora di promesse solenni come quelle regalate da Luigi Di Maio ai commercianti: sul mio onore, l’aumento dell’Iva non passerà. D’accordo, ma come? Quali provvedimenti saranno presi per evitare la tagliola delle clausole di salvaguardia? Dove si troveranno i soldi che l’Europa ci imporrebbe di prelevare dai consumi? Silenzio. Siamo ancora alla fase delle promesse, o forse in realtà non siamo mai usciti da una campagna elettorale permanente che uno come Matteo Salvini alimenta giorno dopo giorno. Ma le promesse servono anche per coprire l’immobilismo dell’esecutivo, arenato a sua volta sul primo scoglio: i sottosegretari.



Ancora una volta è una questione di nomi quella in cui si incaglia il governo del cambiamento, del fare, del programma. Sui nomi, ma anche sui numeri. I grillini in Parlamento hanno il doppio dei seggi della Lega, o quasi, ma il partito di Salvini sventola i sondaggi e lunedì metterà sul piatto i risultati delle elezioni amministrative. Domani votano 6,8 milioni di italiani, e non sono pochi anche se mancano città importanti. È un voto di provincia, ma di una provincia che può fare valere un suo peso. Treviso, dove c’è stato il crac di Veneto Banca; Vicenza, teatro del crac della Popolare; Siena, terra del Montepaschi: uno spaccato dell’Italia truffata e tradita, tre amministrazioni uscenti di sinistra, e sarà interessante vedere dove si orienta l’elettorato. Si vota in cinque capoluoghi siciliani e in due municipi della capitale, con 291mila elettori romani che faranno capire che cosa ne pensano della giunta Raggi. 

Insomma, è vero che il voto locale segue logiche del territorio ma potrebbero uscirne indicazioni anche a livello nazionale. I legastellati stanno facendo ammuina come ad aprile, quando fecero di tutto per tirare la corda fino a fine mese, quando si votava in Molise e Friuli Venezia Giulia. Uno zero virgola in più o in meno potrebbe decidere il destino di qualche sottosegretario e spostare gli equilibri nelle oltre 300 nomine che attendono la maggioranza, dalla Rai alle grandi società di Stato fino alle direzioni dei ministeri. La fortuna di Lega e 5 Stelle è che le opposizioni sono evanescenti, Forza Italia balbetta perché non sa come prendere questo governo a trazione leghista con cui resta alleata anche nel voto di domani, il Pd che riesce a farsi sentire soltanto con la voce di Graziano Delrio. E così tra indecisioni e incapacità il Parlamento “del cambiamento” resta immobile, sempre uguale a se stesso.