Ci consenta il lettore di partire un poco da lontano. C’è una Risoluzione, la numero 112/97, approvata il 4 luglio 1997 dal Parlamento europeo sui diritti umani nell’Unione Europea, che afferma tra l’altro che “è necessario garantire l’imparzialità dei giudici distinguendo tra le carriere dei magistrati che svolgono attività di indagine — i cosiddetti “examining magistrates” — e quello del giudice al fine di assicurare un processo giusto”. In sostanza quella che viene chiamata separazione delle carriere.



Ma si sa, noi italiani siamo europeisti a corrente alternata: ci interessano in questo momento soprattutto l’euro e le esternazioni del ministro Paolo Savona, per alimentare dibattiti sul nulla. Si chiacchiera e si prende tempo. Al momento il resto non conta. Non stupisce quindi che ci siano voluti ben 50 anni perché un cardine della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali venisse inserita nel nuovo articolo 111 della Costituzione. 



Poi ci sono volute centinaia di sentenze della Corte di Strasburgo che hanno bollato il sistema giudiziario italiano per violazione dei principi di garanzia dei cittadini. Alla fine abbiamo concepito una sorta di processo contraddittorio, mezzo inquisitorio e mezzo accusatorio, che denota ancora una volta il ritardo, la  confusione  e la crisi della giustizia italiana.

E’ solo una premessa, perché il nuovo ministro della Giustizia, il pentastellato  Alfonso Bonafede ha aperto ufficialmente l’agenda per una riforma della giustizia e ovviamente della riforma sulla separazione delle carriere neppure se ne è occupato e tanto meno se ne occuperà, facendo compagnia, in materia, al prestigioso Portogallo, ma soprattutto perché ha subito stoppato la parziale riforma delle intercettazioni telefoniche, che tanto piacciono ai nostri pubblici ministeri. In fondo una premessa per stoppare tutto e garantire una svolta ancora più autoritaria nel mondo della giustizia.



Sulle intercettazioni, il Guardasigilli del governo del “cambiamento” ripercorre la strada del “grande fratello” che indaga su tutto e su tutti. Sentite che cosa ha detto Bonafede, così arriviamo al dunque di oggi, inserito nel grande calderone giustizialista del sistema italiano. “Il decreto legislativo varato dal precedente esecutivo, la cui piena efficacia è prevista proprio durante questo mese, non riesce nell’obiettivo di assicurare un effettivo contemperamento dei diversi interessi richiamati. Le modifiche introdotte anzi — aggiunge Bonafede — appaiono come un dannoso passo indietro sulla strada della qualità ed efficacia delle indagini e rispetto alla corretta distribuzione dei compiti funzionali tra i diretti soggetti coinvolti”. 

Si concede anche un commento, il Guardasigilli, del cambiamento contraddittorio: la riforma era “affetta dalla malattia della cosiddetta riformite”. In sostanza, dal cosiddetto cambiamento all’ascolto indiscriminato dei cittadini e poi naturalmente allo “sputtanamento” generalizzato. In definitiva, un passo avanti e subito due passi indietro.

Non a caso l’Associazione nazionale magistrati si è alzata in piedi con un applauso al ministro.  L’Amn ha subito sentenziato: “La riforma (quella che Bonafede blocca, ndr) non solo non raggiunge lo scopo prefisso: evitare la pubblicazione di conversazioni sensibili che incidono sul privato dei soggetti, ma avrebbe prodotto danni alle indagini e leso il diritto di difesa”.

Sarebbe interessante discutere su come le intercettazioni pubblicate sarebbero in grado di ledere il diritto della difesa. Ma parlare di tutto questo nel Paese delle “procure feudo” è quasi inutile. Quindi prepariamoci non a rivedere una “Cascata di diamanti”, ma a leggere e ad ascoltare una penosa “cascata di intercettazioni”, disinvoltamente divulgata, come in passato.

Continuiamo così nel bilancio del “cambiamento a rovescio”, con anche i nuovi “paletti per la prescrizione” (dovrebbe fermarsi dopo il primo grado di giudizio)  istituto sconvolgente per i “grandi innovatori” che predicano da anni la “certezza della pena”, senza battersi per la “certezza del diritto”. 

Poi ci si prepari a una legge sulla difesa personale (che sarà tutta da vedere) per i rischi che comporta e a una discussione parlamentare sul fatto che i magistrati non possono “andare e venire” dalla funzione di  governo o di incarico politico e poi ritornare alla magistratura. Quasi un’ovvietà, dove si scomoda anche la “divisione dei poteri”, che gli innovatori purtroppo non conoscono.

C’è indubbiamente una buona sintonia tra questo governo e la magistratura italiana. La radicata convinzione che si debba chiamare cambiamento quello che cambiamento non è, viene anche dalle elezioni del Consiglio superiore della magistratura e dal dibattito acceso tra le quattro correnti presenti tra i nostri “sacerdoti” della giustizia. 

Cominciamo a dare la notizia che Piercamillo Davigo, il teorico della presunzione di colpevolezza, ha spopolato prendendo una valanga di voti con la sua corrente Autonomia & Indipendenza. Con 2522 voti, Davigo è il primo degli eletti. Almeno un quarto dei magistrati lo ha votato. Insomma un trionfo per un “intransigente” e per un leader di una della quattro correnti presenti nella magistratura italiana: probabilmente un’altra anomalia per il peso che hanno nel dibattito e nelle votazioni su alcuni organi dello Stato.

Si può anche notare che a uno spostamento a destra del Parlamento, corrisponda anche uno spostamento a destra delle forze presenti nella magistratura italiana, anche nel Csm. Molti vedono sintonia tra Davigo e il nuovo Guardasigilli ad esempio, come sul blocco delle prescrizione e altre tesi. Ma Davigo è inflessibile al riguardo e ripete di essere “una magistrato del tutto indipendente anche rispetto a qualsiasi governo in carica”.

Forse la sintonia viene dai tempi di fondo che abbiamo cercato di ripetere alla luce dei cambiamenti che promette il nuovo Guardasigilli Bonafede.

Ma guardando lo stato della giustizia italiana, dalla separazione delle carriere alle intercettazioni, all’impianto processuale, ai blocchi sulla prescrizione, alla menata della “certezza della pena”, non viene in mente con nostalgia solo il nostro grande Cesare Beccaria. Che direbbero dell’attuale giustizia italiana i grandi classici che hanno delineato la divisione dei poteri come Montesquieu e Tocqueville? Che direbbero uomini come Francesco Merlino, Leonida Bissolati, Francesco Carnelutti, Sergio Cotta, Giuseppe Capograssi, per arrivare a Piero Calamandrei fino a un eroe come Giovanni Falcone?

Probabilmente resterebbero di stucco e non riuscirebbero a fare un commento. Quelli erano dei grandi  giuristi e dei grandi democratici. Non volevano soprattutto confondersi con quelli che chiamavano “giustizieri improvvisati”,  digiuni di studi giuridici e di grande umanità.