Se il serissimo Economist ha potuto impunemente rispolverare la vecchia battuta secondo cui “l’economia è la scienza che spiega perché le sue previsioni non si sono avverate”, la disputa esplosa attorno al vaticinio della Pizia di via Ciro il Grande, l’Inps, sull’imminente calo dei posti di lavoro causato dal recente decreto dignità, assume subito un altro colore. Il colore farsesco delle dispute sterili tra legulei. Che procedono spesso aspre, asperrime, ma del tutto decorrelate dalla realtà. Dunque qualcuno ha inserito negli allegati al testo del “decreto dignità” di Luigi Di Maio una tabella che ne stimava gli effetti in 8.000 posti di lavoro in meno per dieci anni, configurando così il primo clamoroso caso di legge-Tafazzi, ossia di una legge che deliberatamente provvede a peggiorare le cose, sbandierandolo e quasi vantandosene. È mai possibile?
Ma no che non lo è. Per capire allora cos’è accaduto non rileva tanto stabilire quale sia stata la “manina” di cui va a caccia Di Maio, quella che ha inserito la tabella previsionale dell’Inps negli atti ufficiali del governo, magari con la speranza di licenziare il proprietario della manina, senza sapere che di solito nella Pubblica amministrazione chi commette carognate del genere finisce col beccarsi una promozione. Rileva, piuttosto, capire come stanno le cose. E la cosa migliore per riuscire a capirlo è: aspettare, e vedere. Non pronosticare.
Facciamo un passo indietro. È vero, verissimo che il “Jobs Act” ha favorito una crescita dell’occupazione. Nel senso che certo non l’ha ostacolata. La cosa è però coincisa con due fattori: uno macroeconomico, l’altro lessical-culturale. Quello macroeconomico è presto detto: Renzi ha varato il Jobs Act prima di perdere la testa per il raptus di narcisismo che ha avuto la meglio perfino sulla sua fortuna, e quindi – da generale ancora fortunato – ha visto coincidere il suo probabilmente irrilevante Jobs Act con una ripresa congiunturale che ha rilanciato la produzione determinando una netta ripresa del fabbisogno di manodopera. Il fattore lessical-culturale è consistito in una generale dimenticanza dell’opportunità di riclassificare le statistiche sul lavoro, dopo il Jobs Acts, in modo da non dissimulare ma evidenziare la crassa differenza che c’è tra lavoro “a tempo indeterminato” e lavoro “a termine”.
Spieghiamola, questa differenza, con un esempio facile-facile. Giovanni, 26 anni, impiegato a tempo indeterminato con 1.800 euro di stipendio netti al mese (buon per lui) va in banca a chiedere un mutuo casa perché vuole sposarsi e fare un bambino. La banca gli chiede di esibire il cedolino aziendale per sincerarsi che la sua paga sia “capiente” rispetto alla rata di mutuo che gli toccherà pagare. Lui la esibisce e gli danno il mutuo. Il fratello di Giovanni, ovviamente Giacomo, ha invece un bel contratto da 2.000 euro netti al mese, ma con scadenza a sei mesi dalla data della richiesta di mutuo. La banca non gli dà il mutuo. La stessa banca. Perché?
Perché sia Giacomo che Giovanni sono esposti, agli occhi della banca, alle stesse possibili traversie di qualunque essere umano: restare invalidi per un brutto incidente e perdere il lavoro; perdere il posto perché l’azienda che li paga fallisce; essere licenziati per aver sessualmente molestato una collega avvenente; e così via. In più, però, Giacomo ha la certezza che di lì a sei mesi il suo contratto a termine scadrà, e nessuna certezza che gli venga rinnovato, e questo a prescindere dalla legge che ieri concedeva tre rinnovi e oggi – scandalo, scandalo! – solo due. E quindi la banca, che notoriamente non guarda alle previsioni né dell’Inps, né dell’oroscopo, ma solo alle scadenze dei contratti, non si fida.
Dunque la forte componente “a termine” dei contratti favoriti dal Jobs Act avrebbe dovuto essere meglio statisticamente distinta dal computo generale dell’andamento dell’occupazione e, certo, nelle tabelle analitiche questo distinguo c’è sempre stato. Ma non nei titoli di testa dei tg e dei quotidiani, che hanno semplicemente rappresentato il grande segno “più” che magicamente ha iniziato a connotare le cifre sull’occupazione. Con questo si vuol dire che sicuramente l’occupazione nei prossimi mesi calerà, almeno proporzionalmente a quanto calerà il Pil, stando alle previsioni (peraltro anch’esse aleatorie) di tutti gli istituti di ricerca. È facile: Pil aumenta, aumenta l’occupazione. Pil cala, diminuisce l’occupazione. Chi vorrà potrà dare la colpa al decreto dignità, e ovviamente saranno gli stessi che avevano dato il merito dell’aumento al Jobs Act. In errore oggi come allora, probabilmente.
Negli Stati Uniti i contratti di lavoro sono per il 79% a tempo indeterminato, e sì che la flessibilità in entrata è elevatissima. Solo che lì il licenziamento individuale per motivi economici (“non mi servi più, quella è la porta”) è sempre stato lecito, e con modici indennizzi, ma è anche sempre stato bilanciato da un mercato del lavoro mobilissimo e ben interconnesso tra domanda e offerta, per cui mediamente il licenziato, a meno che non abbia violentato la collega avvenente o non sia scappato con la cassa, un altro posto lo trova, e per giunta lo accetta, anche se consiste nel servizio ad un distributore di carburante, anche se si trova in un altro Stato, lontano da casetta sua, e perfino se è laureato in Scienze della comunicazione. In Italia, no. Impossibili, quindi, i paragoni tra Italia e resto-del-mondo: come quello classico dei cavoli con le pere.
In questo scenario snervante, ma non serio, si aggiunge la polemica pepatella tra il governo e la Confindustria. La confederazione degli industriali, da due anni guidata da quella persona seria e perbene che è Vincenzo Boccia, fa il suo mestiere: difende, cioè, la flessibilità per definizione, stupirsene e polemizzarci sarebbe come meravigliarsi che Dracula difenda il sangue e che la fata da capelli turchini difenda gli abbecedari.
Di Maio, con perfida ma incontrastabile ironia, rovescia contro Confindustria l’improvvido pronostico sulla crisi economica che avrebbe dovuto colpire l’Italia a causa del “No” al referendum costituzionale renziano, che invece i dati decisero di ignorare ostentatamente, restando volti al bello grazie alla buona congiuntura economica e nonostante l’instabilità politica che derivò dal voto del 4 dicembre 2016.
E dunque? Come si diceva in premessa: aspettiamo e vediamo. Tra le tante cose che mancano al nostro fortunato e sventuratissimo Paese, spicca l’inefficienza degli strumenti preposti a favorire l’incrocio tra domanda e offerta di lavoro. Potenziandoli (ma Di Maio ne sarà capace?) è fin troppo chiaro che il lavoratore “a termine” scippato dal deplorevole decreto dignità del diritto di essere rinnovato per la terza volta dall’azienda Pinco, troverebbe rapidamente un altro posto, magari ancora a termine, nell’azienda Pallino. E che l’azienda Pinco, nell’impossibilità di assegnare a quel lavoratore un terzo rinnovo, procederebbe a selezionare un altro contrattista a termine per la posizione rimasta scoperta. O magari, se la legge glielo imponesse, spostando in quella posizione un dipendente a tempo indeterminato e assumendo al suo posto, e a termine, qualcun altro.
In Italia questo giro virtuoso di seggiole e contratti è ostacolato dal fatto che la Pubblica amministrazione è paralitica. Non si parla da una porta all’altra di uno stesso corridoio. Non facilita l’incrocio della domanda e offerta di lavoro, ma nemmeno – a ben guardare – l’incrocio di autobus efficienti a Roma, di guardie mediche tempestive, di strade senza monnezza o buche.
Dunque vedremo – tra le altre cose da vedere – se il governo giallo-verde saprà miracolarla almeno sul fronte dei servizi per il lavoro: pare che la ministro Giulia Buongiorno ci stia dando dentro, col lavoro. Ma un suo successo resta improbabile. E del resto, che Di Maio sia ministro del Lavoro senza aver mai davvero lavorato in vita sua è, oggettivamente e senza sfottere, anomalo come lo fu che un recente e appassionato ministro dell’Istruzione non fosse laureato. Stranezze italiane. Con cui sia Confindustria, sia la Pizia dell’Inps convivono, in fondo, benissimo e da sempre, forse perché se non altro sono stranezze che gli lasciano qualcuno con cui prendersela.