La mutazione genetica di Pontida la vedi dal colore. Il blu nazionale ha preso il posto del verde secessionista. Il gazebo del Trentino fra quelli della Calabria e del Molise. Matteo Salvini ha fatto l’asso pigliatutto, ha parlato al Nord come al Sud, ha dimostrato plasticamente come le categorie classiche della destra e della sinistra siano ormai un pallido ricordo del passato. Di sinistra su pensioni e diritti dei lavoratori, di destra su migranti, legittima difesa e lotta alle mafie.



Dal palco gremito come solo nel 1994, Salvini ha potuto tastare con mano il consenso che gonfia le vele del suo Carroccio, anche se ha messo in guardia i militanti, vecchi e nuovi, dai facili entusiasmi provocati dai sondaggi che assegnano alla Lega cifre da capogiro, oltre il 30 per cento, giudicando quei numeri solamente virtuali. Eppure ha ragione di esultare Salvini, a capo di un partito che ha cambiato profondamente pelle, ma che è oggi per la prima volta davvero nazionale. E i tanti tricolori che punteggiano il prato dei secessionisti stanno lì a dimostrarlo.



Da Pontida il vice premier ha dato atto agli alleati di governo a 5 Stelle di serietà e coerenza, come a voler scacciare le voci maligne che possa essere tentato di andare al voto a inizio 2019 per monetizzare quei consensi virtuali di cui sopra. Si è detto sicuro di poter rimanere al governo non per cinque, ma per trent’anni, anche se non è chiaro con chi, con i grillini, con il centrodestra, oppure da solo, magari dopo aver fagocitato gli alleati oggi all’opposizione. Alleati, Berlusconi e Meloni, mai degnati di una citazione. E la ragione di tanto ottimismo l’ha spiegata il braccio destro di Salvini, Giorgetti, secondo cui di fatto oggi in Italia non c’è più opposizione. 



Sbaglia clamorosamente però chi immagina che Salvini si stia rivolgendo esclusivamente alla pancia del paese, agli istinti più bassi e beceri. La sua visione, per quanto trasversale, unisce tanti punti dolenti di una realtà, quella italiana, ancora alle prese con il morso della crisi economica. Si pensi alle bordate contro la precarietà, o contro l’innalzamento dell’età pensionabile. Oppure alla sensazione diffusa di insicurezza, che le cifre ufficiali sul calo dei reati e degli sbarchi dei clandestini non riescono in alcun modo a contrastare. Ecco allora che nel pratone si sono mescolati senza troppi problemi dialetti bergamaschi e pugliesi, veneti e siciliani, piemontesi e campani. Realtà diverse che chiedono cose diverse, ma che si ritrovano unite dietro un “capitano” capace di comunicare speranza.

Salvini però sa che la sua battaglia non potrà avere successo se non sarà portata con efficacia a livello europeo. Il caso migranti è lì a dimostrarlo. Per far cadere quello che ha definito “il muro di Bruxelles” il leader del Carroccio ha lanciato l’idea di una “Lega delle Leghe” che unisca i movimenti sovranisti a livello continentale in previsione delle elezioni europee del maggio 2019. Per lui dovranno essere “un referendum fra l’Europa delle élite, delle banche, della finanza, dell’immigrazione e del precariato, e l’Europa dei popoli e del lavoro”. 

Il problema è il quadro delle alleanze, su cui è lecito avanzare qualche dubbio. Se i potenziali alleati di Salvini sono l’ungherese Orbán, l’austriaco Kurtz, o il bavarese Seehofer, oltre alla tradizionale Marine Le Pen, è tutto da dimostrare che la sommatoria fra i singoli sovranisti possa davvero avvenire. E soprattutto in nome di che cosa: si guardi al caso della gestione dei flussi migratori, di cui nessuno sembra voler condividere il peso con l’Italia. Lo stesso schema potrebbe riprodursi sulla politica economica: se nessun paese — in nome degli interessi nazionali — accetta di rivedere le regole di Dublino, non si può nutrire alcuna ragionevole speranza che vi sia più disponibilità sui parametri di Maastricht per avere una politica economica più votata alla crescita. 

Da qui a maggio, insomma, la sfida che attende Salvini sul piano europeo non è meno difficile di quella di produrre risultati concreti con il governo del paese.