E’ complicato e, per dirla tutta fino in fondo, anche imbarazzante fare oggi un bilancio degli anni alla Fiat, come amministratore delegato, di Sergio Marchionne. Un uomo che esce di scena dal vertice della grande azienda in questo modo drammatico e la sua attuale condizione per l’aggravamento di una malattia che era passata abbastanza sotto silenzio, lasciano senza fiato. Si pensa in questo momento al manager globale, canadese con radici profondamente italiane, come a un uomo che troverà conforto nella sua terza laurea, quella in filosofia, rispetto alle due che lo hanno forgiato come grande manager, quelle in giurisprudenza ed economia.
Fatta questa premessa, è pure doveroso domandarsi chi ha rappresentato in questi anni, di svolta epocale e di espansione di un capitalismo con poche regole, Sergio Marchionne.
Nel 2003 muore Gianni Agnelli, un anno dopo muore il fratello Umberto. Marchionne diventa amministratore delegato della Fiat il 1° giugno del 2004, e prende in mano quella che è stata per anni la più grande azienda italiana in condizioni drammatiche, un’azienda, come dirà lui stesso, che attraversa il “momento più grave della sua storia” ultracentenaria. L’industria dell’auto a livello mondiale, con le famose case americane che sono ormai sull’orlo del collasso, sta andando malissimo e la Fiat ha accumulato, per anni e tante volte, sofferenze incredibili, pur godendo di un “riguardo” dallo Stato italiano che qualche volta ha lasciato tutti perplessi.
Quando arriva Marchionne i conti sono da fallimento conclamato. Citiamo solo un dato: il patrimonio tangibile era di soli 10 miliardi, il debito accumulato di 32,5 miliardi di euro, quindi il rapporto del debito era di 3,2, contro 1. Si poteva parlare di disastro.
A questo punto Sergio Marchionne comincia a muoversi per salvare il salvabile, con un’iniziale apertura anche verso i lavoratori. Poi, dopo qualche anno, cambia nettamente direzione e comincia a tessere grandi operazioni di finanza e di relazioni internazionali. Cerca di acquisire Opel dai tedeschi ma non vi riesce. Il colpo dell’espansione arriva mediante un accordo con il presidente americano Barack Obama e la creazione di Fca, la fusione con Chrysler, dove non si comprende quale sia il vero compratore e molti pensano a una sorta di “cessione mascherata”. Con un interesse americano che emerge chiaramente e che fa comodo a Obama.
La Fiat, nonostante ci siano anche progetti per un “piano Italia” (mai realizzato) diventa una sorta di industria apolide, che ha sede ad Amsterdam, paga le tasse a Londra e ha il centro di produzione più importante, con il suo know how, in America. E quasi marginalmente si ricorda che è italiana di nascita, torinese dove popolava Mirafiori.
Marchionne si muove anche disinvoltamente, cambiando posizione politica: prima sta con Obama; in Italia sembra in sintonia con Matteo Renzi. Ma da tempo non ha risparmiato critiche a Renzi e si è avvicinato, anche se sottovoce, al muovo presidente americano Donald Trump.
Diventa inevitabile porsi delle domande. Chi è Marchionne? L’uomo che ha salvato la Fiat portandola nel mondo, o quello che ne ha decretato la fine facendola diventare americana? L’uomo di una grande transizione inevitabile, in un Paese dove sta trionfando la deindustrializzazione e addirittura è vietato parlare di politiche industriali?
E’ un rebus che prima o poi avrà una risposta. Certo, si può affermare subito che Marchionne ha girato pagina, quella novecentesca, come l’uomo di un passaggio epocale, che ha strappato la Fiat e la famiglia Agnelli da un baratro fatale. Insomma ha pareggiato i conti aziendali e ha fatto guadagnare soldi agli azionisti e alla numerosa famiglia.
Ma per adesso e anche in prospettiva, Fca rimane un gruppo minore nel panorama della produzione mondiale di automobili e deve affrontare diversi problemi. Oggi è l’ottavo gruppo con poco meno di cinque milioni di autoveicoli venduti (di cui appena un settimo prodotto in Italia). Insomma, malgrado l’abilità manageriale, quella delle relazioni internazionali e quella finanziaria, Fca ha il 5,1 per cento del mercato, quasi la metà di Volkswagen e Toyota e lontano, in percentuale, dalla stessa Renault francese. Deve trovare un partner o può addirittura diventare appetibile per qualche compagnia di stati emergenti in Asia.
Si può ripetere che gli Agnelli, soprattutto, devono ringraziare Sergio Marchionne, ma un “coro” di consensi italiano (come appare dalla stampa italiana) appare piuttosto problematico. Difficile ad esempio fare i calcoli su chi, tra la Fiat e l’Italia, ha dato di più in questa lunga storia aziendale. E non è inopportuno farlo, anche perché l’azienda è diventata apolide, come di diceva. Si può notare, oltre alle varie complicazioni sindacali che si sono avute in questi anni, che nel 2000 Fiat occupava ancora 120mila persone in Italia. Oggi, compresi i lavoratori di Maserati e di Ferrari, sono in tutto 29mila.
Sarà pure la logica del nuovo capitalismo. Ma a tanti non piace proprio.