“Attacco alla democrazia”, tuona Matteo Salvini, vicepremier preoccupato per la piega che ha preso la vicenda giudiziaria dei rimborsi elettorali alla Lega. La magistratura ha aperto la caccia ai soldi, quasi 49 milioni di euro, da sequestrare ovunque si trovino. C’è stata un’evoluzione nelle reazioni leghiste: sono passati dalle frasi fatte buone a ogni utilizzo (un “complotto”, come protestava Silvio Berlusconi), a un classico del vittimismo (“diamo fastidio”, ha detto il ministro Centinaio), fino all’ironia amara quando Salvini ha garantito che avrebbero cominciato con il devolvere le offerte raccolte domenica tra i fedeli presenti a Pontida e le avrebbero versate in monetine da 10 centesimi.



L’appello al Colle fa parte di un altro classico da prima repubblica, cioè il tiro per la giacca del capo dello Stato. Non è un gesto estremo, da disperati: serve per reggere l’impatto mediatico dell’inchiesta. A caccia di quei soldi si sono messi i magistrati, Saviano, la Repubblica, Il Fatto Quotidiano, ognuno con le sue ragioni. C’è chi vuol fare giustizia, chi combattere il nemico, chi sgambettare un alleato ingombrante. L’offensiva è massiccia perché coinvolge non solo la Lega ma anche i 5 Stelle che hanno fatto dell’immacolata onestà un imperativo categorico e ora si ritrovano al governo con un partito che avrebbe pescato nelle peggiori vergogne della politica: aver intascato soldi pubblici non dovuti.



L’inchiesta scalda i cuori soprattutto degli oppositori del governo Conte. Gli anticasta gialloverdi tacciono. Anzi, sui social è partita la controffensiva grilloleghista che in realtà non è priva di ragioni, prima di tutto tecniche. La sentenza che ha condannato Bossi e Belsito è di primo grado, può essere appellata e magari riformata. Le tifoserie da bar sport domandano come mai chi si scandalizza per questi 49 milioni non abbia recuperato con altrettanto zelo i soldi spariti in Montepaschi, in Banca Etruria o nella fusione tra Margherita e Ds.

Ma ci sono anche questioni politiche. Le indagini riguardano un’altra leadership e formalmente anche un altro partito, visto che la Lega Nord ha perso per strada la connotazione geografica. Che continuità c’è tra il blocco separatista-federalista del Senatur e quello sovranista-lepenista di Salvini? Nemmeno la fronda interna alla Lega odierna esce allo scoperto impugnando questa inchiesta per fare la guerra al segretario. È invece il Pd a scagliarsi sul premier “di fatto”. Ma sembra quasi un attacco d’ufficio, un atto dovuto forse più per ritrovare un terreno comune dove riunire le anime della sinistra. Perché per il resto le divisioni corrono profonde, non ultime quelle provocate dal “decreto dignità” che trova consensi tra chi ha sempre lottato contro il precariato e l’ultraliberismo della pubblicità al gioco d’azzardo. Se la Lega fosse un’impresa si cercherebbe di tutelarne la continuità aziendale per tutelare i lavoratori: ma gli elettori di uno dei primi partiti italiani non hanno diritto a essere tutelati?



Si è già visto con Berlusconi che cercare di abbattere un avversario politico per via giudiziaria è una scorciatoia che non sempre funziona e talora può rivelarsi un boomerang. Potrebbe accadere lo stesso con Salvini, che infatti non sembra vacillare almeno al momento.