Nelle piccole fonderie bresciane, come anche nella grande e mitica Brembo, vicino agli altoforni è difficile individuare, sotto gli elmetti gialli degli operai, delle carnagioni chiare: guardando meglio, al bagliore del calor rosso di colata, si distinguono pelli nere, di ragazzi congolesi, senegalesi, ghanesi. Chi è nato in un clima equatoriale, sopporta il caldo meglio di chi è nato nella nebbia. Nei reparti “del freddo” dei salumifici della Bassa Padana – dal celebre Parmacotto a tanti anonimi – è difficile individuare, sotto le bustine di cotone bianco e dietro un velo livido di pallore, carnagioni scure, ed è difficilissimo sentir parlare italiano: sono quasi tutti rumeni, polacchi, russi. Chi è nato alle soglie del Circolo Polare Artico fa evidentemente meno fatica a lavorare nel gelo necessario a prevenire la decomposizione delle carni macellate prima che inizi il processo di trasformazione – salatura cottura eccetera – che le trasformerà nei nostri amati prosciutti e salami.



Nelle stalle degli allevamenti padani, dove si allevano mucche da latte per il Parmigiano o il Grana o da carne per gli hamburger delle paninerie, è facile distinguere la pelle olivastra degli indù, e spesso anche il cerchietto rosso tra le sopracciglia dell'”occhio spirituale” a loro caro, perché come accudiscono il bestiame bovino gli indù, convinti o meno che siano della sacralità di quella specie ma comunque portati a rispettarla, non lo accudisce nessuno.



Queste cose Matteo Salvini non le avrà forse studiate sui libri, ma certamente le sa, perché gliele hanno raccontate i suoi elettori, quei piccoli o medi o grandi imprenditori padani che senza lavoratori immigrati chiuderebbero bottega domani mattina, che li pagano bene, li stimano: solo che non vogliono temere che altri slavi, altri africani, altri asiatici possano la notte forzare le porte delle loro ville e rapinarli. Il che non è, ovviamente, né un fatto “di razza”, né una tendenza sociale, ma semplicemente una marchiana evidenza statistica. E perciò hanno votato Lega, il partito del Capitano che promette sicurezza. Quella sicurezza al cui presidio la sinistra di governo, frastornata dalla sua componente radical chic ben protetta da antifurti elettronici, polizze e cani da guardia, ha da decenni rinunciato.



Ripeteva sempre Luca Zaia negli anni della crisi – da un po’ di tempo per fortuna lo ripete meno – che nel suo Veneto 40 mila immigrati extracomunitari, in regola ma disoccupati, erano un costo sociale aggiuntivo rispetto ai 50 mila italiani, che il territorio non riusciva più a sostenere. E dare del razzista al garbato Zaia forse non riuscirebbe facile nemmeno al bullo anticamorra Saviano. 

Questo tema – l’indispensabilità degli immigrati per il mondo del lavoro italiano – dovrebbe dunque mettere d’accordo e non contrapporre due personaggi che – spiacerà a entrambi – hanno molto in comune: Matteo Salvini e Tito Boeri. Hanno in comune, precisamente, la tendenza a esprimere con brusca chiarezza le loro opinioni, attitudine rara nei vari Renzi, Monti, Berlusconi e tanti altri.

Boeri, renziano di complemento, si era sentito affidare dall’altro bullo, appunto quello di Rignano, il dicastero del Lavoro, in quel giorno di febbraio del 2014, poche ore prima che nelle mani dell’allora presidente Napolitano venisse depositata la lista dei ministri proposti. E fu l’Uomo del Colle a depennare il nome di Boeri perché una balorda ragion politica lo indusse a gratificare il mondo cooperativo insediando in quel posto il mite Poletti, quello secondo cui ai giovani più del curriculum per trovare un lavoro sarebbe servito il calcetto.

Ebbene, Boeri non rifiutò – poi – di andare a presiedere l’Inps, perché si sentiva pronto a prestare servizio come civil servant. E l’ha fatto scrupolosamente, da bravo economista qual è, senza lesinare al suo “designatore” Renzi – che infatti l’ha detestato, per questo – tutte le critiche che considerava necessarie in punta di econometria; e senza smentire regolarmente i dati trionfalistici sul lavoro erogati a piene mani da un Istat mai così filogovernativo come nei mille giorni del Giglio Magico al governo. Ora andrebbe chiesto a Salvini: perché meravigliarsi che Boeri, da sempre di sinistra e solito criticare perfino chi l’aveva nominato, si esprima oggi criticamente, secondo le sue opinioni, contro uno cui non deve nulla?

Nel merito, in realtà, Boeri dice male una cosa giusta. Che cioè senza gli immigrati non si troverebbero tra gli italiani lavoratori risposti ad accollarsi mansioni ingrate come quelle: fonditori, macellatori, allevatori, per non trascurare gli operatori socio sanitari, i badanti, i facchini, i traslocatori… Ma questa verità andrebbe detta (e gestita) diversamente. Ciò che potrebbe “salvare” le pensioni degli italiani dalla curva della denatalità non è tanto “chi” fa determinati lavori, ma il fatto che questi lavori sopravvivano e siano dunque “da fare”. Poi, effettivamente, che li faccia un italiano o un extracomunitario ai fini Inps è uguale, anzi spesso le leggi putribonde che ammorbano il nostro ordinamento fanno sì che gli immigrati, se tornano nei loro Paesi d’origine senza farsi assistere da qualche consulente del lavoro, finiscono col lasciare nelle casse previdenziali italiani una parte cospicua dei soldi che hanno versato.

Ma in che senso Boeri “dice male” una cosa vera? Nel senso che esprime anche lui – senza volerlo – quel fondamentale scetticismo verso la “risanabilità” della Cosa Pubblica italiana che ha talmente inquinato lo spirito della sinistra da indurla ad appoggiare in massa un Caudillo di nessuna competenza, Renzi, solo perché dava l’impressione di essere quel dittatore buono che secondo gli inconfessabili retropensieri dei mille Boeri delle nostra classe dirigente è l’unica figura in grado di governare gli italiani. Già: perché un modo ci sarebbe per conciliare il diavolo e l’acqua sana, ossia Boeri e Salvini. E sarebbe quello di prescrivere ai disoccupati italiani di accettare i lavori che oggi rifiutano quando i Centri per l’impiego glieli offrissero, pena la perdita – in caso di rifiuto – di ogni diritto assistenziale, per la stessa ragione per la quale un erede Agnelli, anche se non titolare di una posizione Inps in quanto ricco di famiglia e fruitore di pingue rendita, non può e non deve essere conteggiato nel novero dei disoccupati.

Immaginiamoci per un momento la città del Sole che non avremo mai. Giovanni Pautasso, 21 anni, diplomato senza arte né parte, si iscrive alle liste di disoccupazione di un Centro per l’impiego. Non ha titolo di competenza per far nulla di specifico. Un bel giorno viene chiamato per un posto in un allevamento: si rifiuta di accettarlo. Ipso facto, decade dalla lista: se non lavora e non vuol fare il lavoro che c’è, che s’arrangi. Quel posto va al secondo lavoratore generico in lista: se è un altro italiano, bene; se è extracomunitario, bene uguale. Due gli effetti positivi: moralizzare il rapporto tra il cittadino e l’assistenza; e rettificare il conteggio dei disoccupati. La perniciosa categoria dei “Neet” (né occupati né studenti) va semplicemente abolita. Chi non accetta un lavoro perché non gli interessa e non perché abbia titolo per richiederne uno specifico, è semplicemente uno che avrà le sue ragioni per non lavorare. Una rendita, mammà che gli prepara l’ovetto, sia quel che sia. Ma vada fuori dalle statistiche, esca dall’orbita dei “protetti” del welfare stare: che provveda come può a se stesso. E largo a chi ha voglia di lavorare, italiano o straniero che sia.

I contributi previdenziali non devono avere passaporto. Chiunque li versi sono bene accetti. Ma ha ragione Salvini a dire che – a parità di capacità misurabili – prioritariamente sarebbe giusto saturare la forza lavoro italiana disponibile, prima di ricorrere a quella extracomunitaria. E non certo per questioni di razza: ma per questioni di buon senso. Peccato che questo però Salvini non lo dice, o non lo dice così. Ed evoca invece il licenziamento di Boeri invadendo le competenze di Di Maio – che non sarà contento. Non lo sarà non perché si fidi di Boeri: costui, coerentemente con la sua libertà di pensiero, ha anzi appena bocciato anche l’ipotesi della riforma della legge Fornero cara sia a Salvini che a Di Maio, e soprattutto l’ipotesi della “quota cento” tra anni d’età e di lavoro che è proprio un cavallo di battaglia dei Cinquestelle. Però Boeri ha dato ragione a Di Maio nella sua crociata contro le pensioni d’oro, e questo gli dà qualche punto in più: ma comunque la poltrona e la testa di Tito non sono nelle disponibilità decisionali del ministro dell’Interno, ma di quello del Lavoro. Quindi, per far polemiche inutili con un dotto provocatore qual è Boeri, Salvini ha pestato un callo al suo coequipier. Cartellino giallo.