Saremo ripetitivi, ma appare abbastanza evidente che la storia, sopratutto quella italiana, si ripete con una cadenza impressionante a partire dal 1992, anno della prima irruzione giudiziaria nell’agenda politica del Paese.

Si è riusciti a costruire acrobaticamente, dopo mesi tormentati e tonfi clamorosi di alcune forze politiche, un governo abbastanza strano, per non dire stravagante, attraverso un contratto scritto (innovazione politica straordinaria e sbalorditiva) — con un “prestito” (Giuseppe Conte) preso in una università per ricoprire il ruolo di premier — tra due leader sgomitanti, Luigi Di Maio e Matteo Salvini.



Piaccia o non piaccia, questo governo ha rassicurato un poco gran parte del Paese, una maggioranza di elettori provata e senza grandi illusioni. Quasi aggrappata a un’ultima speranza.

Quello che è stato costituito è un governo che garantisce sopratutto alla Lega di Salvini una popolarità quasi impressionante, e una scalata rapidissima nell’indicatore dei sondaggi. Ora la Lega supera i 5 Stelle di Di Maio e viene valutata intorno al 30 per cento, addirittura al primo posto nelle scelte dell’elettorato italiano.



Nel giro di due mesi, tra dichiarazioni sopra le righe, polemiche continue, in campo nazionale e internazionale, di sapore elettorale e spirito di rivincita da tutte le parti, accadono due o tre cose significative, tanto per andare all’osso del problema.

I due partiti che hanno formato il governo giallo-verde vengono impallinati (per ora moderatamente) da inchieste e sentenze. Parte la Procura di Roma, alcune settimane fa, mettendo agli arresti un super-consulente del sindaco pentastellato Virginia Raggi, niente meno che l’avvocato Luca Alfredo Lanzalone, genovese e amico del guru Beppe Grillo, un uomo che si occupa dell’intricata vicenda dello stadio della Roma, al punto da far cambiare opinione al sindaco. Lanzalone sembra che sia stato pure “premiato”, a quanto si dice, con la presidenza dell’Acea, una società comunale che si occupa di energia e ambiente.



Quando esplode il caso, si tratta di un’altra botta per la claudicante sindaco Raggi, che certo non fa buona pubblicità al partito pentastellato al governo non solo della capitale, ma anche del Paese.

Passa poco tempo e la datata e conosciuta storia dei soldi pubblici usati da Umberto Bossi (il fondatore della Lega) e Francesco Belsito, un tempo tesoriere e amministratore leghista, ritorna alla ribalta con una sentenza della Cassazione che da ragione alla procura di Genova, la quale vuole il sequestro di qualsiasi bene della Lega fino a 49 milioni di euro.

E’ una botta che stende i leghisti e li fa andare fuori dai gangheri e accusare (ma come mai?) una magistratura invadente e interventista.

Secondo molti esponenti leghisti, compreso Matteo Salvini, il partito che in Italia supera il 30 per cento viene “ridimensionato” dalla magistratura. Può darsi, anche se le percentuali non sempre corrispondono. Tuttavia Salvini dimostra di avere la memoria corta, perché nel primo exploit della magistratura, nel 1992, furono liquidati ben cinque partiti ( Dc, Psi, Pri, Pli, Psdi), la struttura portante della democrazia italiana.

E tutto questo appena tre anni dopo un’amnistia sul finanziamento pubblico ai partiti che salvò soprattutto il Pci: era caduto il Muro di Berlino e c’era già chi scavava (in tutto il mondo ma non Italia) tra le macerie di quel muro per trovare indizi molto interessanti sui finanziamenti del nemico ufficiale dell’Occidente, a molti personaggi, partiti e istituzioni “doppie”, per usare un termine alla Le Carré. Ma in quel periodo non ci furono proteste contro la magistratura da parte dei “nuovisti” di ogni tipo.

Con questo retroterra e questo passato, adesso, nel Belpaese ci troviamo in una situazione paradossale. In Italia, senza che nessuno se ne sia accorto, quasi tutti ora si dichiarano “riformisti e garantisti”, tranne in verità i due partiti che formano il governo giallo-verde, che si distinguono invece per la loro volontà di ribadire la “certezza della pena”, di “aggravare le pene” e di far battaglia contro la prescrizione.

Eppure la magistratura, come da oltre un quarto di secolo a questa parte, non si cura dei “complimenti” e vuol sempre segnalare probabilmente la sua presenza e la sua “tutela”, in modo che tutti sappiano che la giustizia in Italia ha un peso che non può essere ridimensionato da nessun governo, nemmeno da un governo “amico”.

Il paradosso, a questo punto, ha diverse facce: la magistratura colpisce partiti sostanzialmente “vicini”; i giustizialisti pentastellati dichiarano che “le sentenze vanno rispettate” (frase ormai epica nella sua banalità); la Lega si trova nello stesso tempo al governo con i giustizialisti ma si dichiara quasi circondata dai pubblici ministeri, che tanto ha difeso in passato, anche come figura autonoma che non ha la funzione riconosciuta negli ordinamenti occidentali democratici dove c’è la separazione della carriere. Qui i procuratori e le procure sono simili a feudi che si muovono in tutta libertà, sbagliando spesso e sconquassando gli equilibri politici.

Insomma il paradosso diventa un groviglio infernale, dove i pentastellati, che stimano Piercamillo Davigo e Nino Di Matteo (non doveva avere un incarico al ministero di Grazia e giustizia?) si trovano a convivere con dei “braccati” dalla giustizia italiana, i quali invocano l’intervento del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, e vengono pure redarguiti dal Consiglio superiore della Magistratura e dall’Anm per i toni usati contro le toghe.

Facciamo a questo punto un piccolo riepilogo di questa nuova situazione, che forse può veramente mettere in imbarazzo il governo.

Punto primo. La magistratura italiana non si limita a incursioni come avviene anche in altri Paesi (Francia ad esempio) ma pretende un ruolo determinante nell’agenda del Paese, come se volesse mettere sempre il suo timbro decisivo.

Punto secondo. In una simile situazione, basterebbe rifare esattamente la storia di questi ultimi venticinque anni per comprendere come l’Italia si trovi in un autentico marasma istituzionale.

Punto terzo. E’ evidente che la demonizzazione della politica, la lotta alla “casta”, continua imperterrita qualsiasi governo si presenti in Parlamento. E’ la visione della politica come corruzione endemica e inestirpabile.

Punto quarto. Gli polemici tra le forze politiche, oltre ai problemi di carattere ampio che già esistono in tutti i settori della vita del Paese, saranno ulteriormente aggravati.

Se la situazione non può definirsi caotica, poco ci manca, al di là di qualsiasi raccomandazione auto-consolatoria.