La ratifica, pressoché unanime, dell’accordo di caminetto del Pd sul futuro del partito da parte dell’Assemblea nazionale sembra confermare le voci che si raccolgono sul modo in cui gli sconfitti del 4 marzo intendono fermare l’ondata “populista” giallo-verde e magari prepararsi alla “restaurazione” — o al ritorno della politica “competente” europeista e aliena da velleità sovraniste — di cui si è parlato a ridosso di una non smentita cena del gotha del renzismo al solito tavolo di ristorante romano. 



E cioè che la linea su cui il Pd si muoverà vedrà uno schema a quattro punte concordato tra Renzi e Berlusconi, per sfruttare a pieno il sistema elettorale proporzionale, una volta che si sarà sgonfiato agli occhi degli elettori, tra vincoli europei e realtà dei conti pubblici, il “cambiamento” promesso dai giallo-verdi. Schema che prevede il nuovo partito di Renzi, una sinistra a guida Zingaretti ma sempre sotto la direzione dello statista di Rignano, poi quello di Calenda con dentro Della Vedova e infine il rifacimento di Forza Italia, che si chiamerà Popolari Italiani, affidato a Tajani. 



In attesa magari che in prospettiva biologica e politica il nuovo partito di Renzi possa fondersi, se converrà, le basi ideologiche ci sono tutte in un quadro di centrismo europeista, con gli eredi legittimi di Berlusconi, con lo scettro passato come da tradizione nel potere dinastico al più “amato”, e capace, figlio “illegittimo”.   

Martina segretario per cinque mesi, purché non si candidi al congresso, in attesa di Zingaretti per riportare nel Pd i fuoriusciti di Leu, vedi l’apertura a Bersani di Martina, e l’attivismo in questo senso di Orlando — il ticket cui sarà affidata nei prossimi cinque mesi l’operazione, compreso nella sceneggiatura politica un percorso di rifondazione programmatica e un restyling negli organigrammi — sembrano proprio andare in questa direzione. Al di là della tonicità rivendicativa della sua azione da parte di Renzi, un’uscita soft e concordata dal renzismo, per poterci domani dialogare dopo aver recuperato nelle urne la bolla speculativa di Salvini e la disaffezione dai 5 Stelle di parte almeno del loro patrimonio elettorale di “sinistra”. E questo perché è poco credibile che Renzi resterà nel Pd, dove non ha futuro anche se vincesse il congresso e quindi fermasse la macchina del partito macroniano. Perché è molto difficile che il Pd possa presentarsi alle elezioni sotto la sua guida, troppo forte il pedaggio prevedibile nelle urne per un rinnovamento del partito vanificato da una leadership che in quell’ambito lo smentirebbe in modo plateale.



Questo schema probabilmente rafforzerà la propensione “governista” a tutti i costi, nonostante le dissonanze ideologiche e programmatiche dai giallo-verdi. In buona sostanza l’agenda politica vedrà il secondo tempo dello scontro — più che per il cambiamento del Paese — tra le ambizioni del “nuovo” ceto politico a stabilizzarsi al potere, e la resistenza del “vecchio” a uscire di scena. I problemi degli italiani possono attendere.