L’assemblea nazionale del Partito democratico del 7 luglio, all’Hotel Ergife, consegna alla storia della sinistra italiana una fotografia drammatica e al tempo stesso quasi patetica.
Quello che già impressionava era la lunga attesa di questo appuntamento, dopo i risultati delle elezioni politiche del 4 marzo e quelli delle comunali di giugno. Ma quello che addirittura lascia esterrefatti è che l’assemblea riesca a stabilire una strategia che si appoggia sulla mancanza di qualsiasi strategia, possibile e ipotizzabile. Al momento, quindi, ci si trova di fronte all’ennesimo ed effimero rinvio del nulla, del vuoto pneumatico condito in salsa rissosa.
In sostanza si è stilato il “mattinale”: Maurizio Martina viene confermato segretario, non più solo reggente, fino al congresso del 24 febbraio 2019. La notizia di giornata del 7 luglio è invece questa: la vera relazione dell’assemblea la tiene l’attuale “re degli sconfitti” (formula tipicamente italiana) Matteo Renzi, l’ex segretario e premier, che si esibisce in uno show di 47 minuti, usando il mitragliatore per attaccare tutti, compreso Paolo Gentiloni, l’ultimo primo ministro del Pd a palazzo Chigi.
Renzi non risparmia neppure gli atteggiamenti di chi gli è succeduto: “Non è l’algida sobrietà che fa sognare un popolo, devi dare un orizzonte forte al Paese”.
Insomma, l’ex segretario, con la consueta veemenza, riconosce di assumersi tutte le responsabilità della sconfitta, ma poi, con la consueta disinvoltura, distribuisce sberle a destra e a manca nel suo partito.
Sarebbe sin troppo facile rispondere. Al momento Gentiloni si limita a un laconico commento: “Imbarazzante”. Ma, a parte queste prime risposte, queste battute di fioretto, guardando l’assemblea, rivedendo lo show renziano, tra applausi e alcune contestazioni, ci si rende conto che l’avvio dei congressi regionali, lo stesso inizio del dibattito congressuale sarà contrassegnato da uno scontro duro di posizioni sulle responsabilità passate e non da un confronto sui nuovi tempi e problemi che dovrebbe affrontare la sinistra. Renzi, in vista del congresso, promette gridando alla minoranza: “Perderete anche questa volta”.
Vengono in mente due commenti fatti in questi giorni. Il primo è quello di un uomo di sinistra, magari anche di modeste ma oneste visioni politiche come Pier Luigi Bersani, che ha invitato tutti a fare un passo indietro e a cercare di comprendere quello che è realmente accaduto nelle società italiana e nel mondo, per ricostruire uno spazio di sinistra credibile e nello stesso tempo al fine di salvaguardare un’identità.
Il secondo commento è quello del sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Giancarlo Giorgetti, che conosce bene la politica, e spiega, quasi preoccupato, che questo governo non ha un’opposizione e quindi fa intendere che si presenteranno oggettive difficoltà: chi fa il controcanto e con chi puoi polemizzare? In un panorama desolante, la fragile democrazia italiana sta diventando ancora più zoppicante senza una reale opposizione.
A questo punto è inutile persino ritornare alle colpe storiche della sinistra italiana, alla sua vocazione “massimalista”, comunque travestita, ai suoi ondeggiamenti di fronte alle reali svolte riformiste, ma l’attuale passività è inquietante, sembra una resa senza condizioni di fronte agli appuntamenti della storia.
Si possono immaginare scenari alla Macron, si può mettere insieme il “fronte antipopulista”, si può immaginare alleanze tattiche di vario tipo, ma non è questo il nocciolo del problema, non sono queste alchimie politiche che risolverebbero le lacune profonde della sinistra del ventunesimo secolo.
In realtà, la sinistra, tra i tanti peccati che ha da scontare, deve fare i conti con l’accettazione quasi acritica del “pensiero unico” neoliberista, scambiato per modernità. Deve farsi perdonare
il via libera alla nuova funzione della banca dopo l’abbandono della “Glass-Steagall act”. Non può dimenticare di opporsi alla rendita che viene dalla speculazione e dalla circolazione scomposta, incontrollabile, dei capitali. Contemporaneamente non può dimenticarsi della concezione di una capitalismo basato su un’impresa responsabile, che cura innovazione, investimenti e occupazione. La sinistra non può poi neppure dimenticarsi del welfare, dei diritti dei lavoratori conquistati in anni di lotte sindacali e di puntare sempre alla piena occupazione e alla crescita.
Il capitalismo che ha conosciuto e con cui si è confrontata la sinistra europea, dopo l’ultimo conflitto mondiale, era il capitalismo già corretto da Keynes, dal welfare di Lord Beveridge, dalla lezione della grande crisi del 1929 risolta da Roosevelt. E’ vero che la sinistra italiana, unica in Occidente, straparlava di Lenin più ancora che di Marx e conosceva poco Keynes. Ma nella sostanza, il boom e il benessere vennero proprio dalle dottrine e dalle pratiche keynesiane.
Quello che è avvenuto negli ultimi anni era impensabile solo trenta anni fa. Mentre la sinistra socialdemocratica europea si ingolfava in sperimentazioni di sempre maggiore apertura neoliberista, la sinistra italiana abbandonava addirittura di colpo il marxismo post-classico per abbracciare il neoliberismo in versione monetarista. Un delirio.
E non capiva, che anche se Keynes avrebbe potuto essere superato e aggiornato, era lui il vero bersaglio della nuova destra rampante, non Lenin o Marx. Parole al vento, con risposte al ritmo di privatizzazioni forzate e demenziali in molti casi.
Aggiungiamo a tutto questo le tappe forzate della globalizzazione, la crisi del 2007, l’assetto istituzionale italiano che non è mai stato aggiornato, con le procure interventiste nel campo politico che si muovono come feudi indipendenti e spesso in aperta opposizione all’esecutivo.
Che cosa ha fatto di fronte a tutto questo la sinistra? E’ stata a guardare, passivamente, godendo di una rendita di egemonia spesso usurpata.
Nel momento in cui questa egemonia si è frantumata, la sinistra non si è neppure scomposta a ricercare le cause di una crisi storica, a rivedere e correggere alcune concezioni, a cercare di comprendere le nuove ragioni di un potenziale e molto ampio popolo di sinistra, che si è moltiplicato per l’aumento delle povertà, delle diseguaglianze sociali e della disoccupazione. La sinistra, quella italiana in particolare, si è fermata a crogiolarsi nella subordinazione al potere dettata dalla grande finanza internazionale e da alcuni poteri istituzionali del Paese.
Ecco quello che stupisce in questi mesi e fotografa l’agonia della sinistra nell’assemblea del 7 luglio.
E’ proprio impossibile che si possa avviare, anche con ritardo, una autocritica collettiva, non distruttiva, affrontando i nuovi problemi sociali, nazionali e internazionali? Si è ancora in grado di fare un congresso a tesi, come si è sempre fatto?
Sia chiaro quindi, non un dibattito con raduni alle feste delle salamelle e neppure con la conta delle primarie, ma con un approfondimento su singoli temi e problemi decisivi della realtà di oggi. Con coraggio e passione. Dimenticandosi per una volta le colpe reciproche del passato recente e lasciando perdere gli obiettivi di carriera da raggiungere in un partito o in un governo.
Se non si ripensa al passato, non si guarda al presente e non si pensa il futuro, si è destinati a restare al palo. E’ questa l’impressione che oggi comunica il Partito democratico. E sembra che resti poco tempo per rimediare.