Il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, si è rivisto in questa settimana durante una programmata e curatissima conferenza stampa. Il premier, con stile per antonomasia accademico, ha usato toni in alcuni momenti melliflui, sempre di grande rispetto verso l’Unione Europea (anche se qualche parametro va rivisto), e come al solito, seguendo il canovaccio del governo giallo-verde, non si è risparmiato in promesse di cambiamento che assomigliano sempre di più a ipotesi di lavoro e a idee che, per realizzarle, ci vuole anche qualcosa di più di un semplice cambiamento di rotta e di qualche aggiustamento popolare e esemplare.
Mentre Conte parlava, poche ore prima o poche ore dopo, il vice-primo ministro Luigi Di Maio, ormai una sorta di grande camerlengo faraonico in materia di lavoro, welfare e chi ne ha più ne metta, si godeva l’approvazione del decreto-dignità, che alcuni applaudono e che altri paventano come una sciagura sui prossimi dati dell’occupazione. Mentre Di Maio gioiva, Matteo Salvini interveniva come al solito con battute di dubbio gusto (eufemismo) su episodi che riguardano i migranti e di certo non onorano il dibattito italiano.
Ma se la riedizione maschilista del Trio Lescano alzava o dosava i toni, c’era sempre un coro di sottofondo che accompagnava le giornate afose della vigilia delle ferie del Parlamento. Ecco il ministro dell’Economia, Giovanni Tria, che sui conti pubblici auspicava, tanto per cambiare, prudenza. Da un’altra parte il ministro per il Sud, Barbara Lezzi, si schierava con i manifestanti anti-Tap (il gasdotto che deve arrivare in Puglia) e altrove, con toni differenti tra pentastellati e leghisti, si disputava seccamente con “sì e no” sulla Tav, che ormai la maggioranza degli italiani ha fuori dall’orbita degli occhi per sfinimento palabratico.
In definitiva, la compattezza di questo governo (che mantiene nei sondaggi una forza enorme) assomigliava all’orchestra del film di Federico Fellini Prova d’orchestra, dove ognuno litigava con il vicino e suonava per conto suo, o forse, per non scomodare i “maestri”, il governo ricordava le bande del Teatro Alcione anni Sessanta a Milano, grande avanspettacolo al cospetto di Dio, con ballerine dalle cosce enormi e lancio per i bigiatori di liceo e per i vecchi (ce n’erano anche a quell’epoca di pensionati) che raccoglievano le fette di panettone lanciate dal palcoscenico. Uno spettacolo che mortificava persino le speranze del boom economico italiano.
Insomma, nel tentativo di fare una sinfonia politica, il governo giallo-verde si è scatenato in una dodecafonia sgangherata, non di certo quella scoperta e composta da Arnold Schönberg.
Eppure questa dodecafonia, diretta con i suggeritori da Giuseppe Conte (alcuni dicono che è tanto sconosciuto che vive in un bunker atomico) con tono accademico, è diventata funzionale per far passare i giorni e preparare l’arrivo dei grandi appuntamenti di autunno. Facendo in più pensare che ci sia uno stato di pre-crisi nel governo, che però si risolve immediatamente. In definitiva, si vive alla giornata guadagnando tempo e promettendo.
In tutti i casi, visto il cosiddetto “quadro” come dicevano ai tempi della “prima repubblica”, se si mettono in fila le aspettative degli italiani, anche con questo caldo vengono i brividi alla schiena. C’è la flat tax, voluta dai leghisti; c’è il reddito di cittadinanza voluto dai pentastellati; c’è la pace fiscale prevista dal contratto di governo e, in sostanza, un brusco ridimensionamento della pressione fiscale. Poi ci sono altri capitoli, tutti importanti anche se qualcuno discordante tra i partecipanti al contratto.
Tanto per cambiare, l’Italia ha bisogno di una crescita sostenuta, di recuperare produttività, di risolvere il problema della disoccupazione e soprattutto il nodo drammatico delle povertà dilaganti che vanno a braccetto con feroci diseguaglianze sociali.
Questi problemi non possono essere risolti con leggi “a gogò”, ma con investimenti massicci, se necessario pubblici che devono essere scorporati dal deficit di bilancio e devono avere il via libera anche dall’Europa. Il problema è complicato e non tutti lo comprendono fino in fondo.
Inevitabilmente l’appuntamento è in autunno, dove c’è innanzitutto la manovra finanziaria, da sistemare da un lato con il fiato sul collo dell’Europa e dall’altro con le agenzie di rating che sono pronte a esprimere i loro mefitici giudizi.
In più non c’è da sottovalutare una frenata mondiale della crescita e la situazione non felice di alcuni Paesi (la Turchia è un esempio e una preoccupante avvisaglia) tra cui anche i grandi Paesi europei, che non sono più brillanti come qualche mese fa. Particolare infine da non trascurare, si fa per dire, il quantitative easing della Bce a dicembre si ferma e i nostri titoli dobbiamo venderli senza grandi reti di sicurezza.
L’appuntamento di autunno poi non è solo scandito dal problema economico e finanziario, c’è tutta la politica mondiale in movimento, con guerre commerciali sotterranee o palesi. Usa, Russia, Cina, India, Giappone, Gran Bretagna, Europa cercano di piazzare “bandierine” qua e là, ma è difficile, in questo momento, capire verso quale nuovo assetto si vada.
Ognuno ha scadenze importanti. Angela Merkel deve affrontare un test elettorale in Baviera, deve convincere i “nipotini” del mai dimenticato leader della Csu, Franz Josef Strauss; Emmanuel Macron ha problemi sempre più grossi in Francia; Donald Trump “spara a destra e a manca” e si prepara alle difficili elezioni di Midterm.
Trump deve aver dato “suggerimenti” a Giuseppe Conte, ma bisognerà aspettare qualche mese per vedere se saranno onorate promesse e alleanze reciproche.
L’Italia, oltre al problema di non deludere con il suo governo nuovamente gli elettori (sarebbe letale), deve fare un braccio di ferro con l’Europa e deve pure aspettare le elezioni europee che si preannunciano come un subbuglio populista. Di fatto, soprattutto per l’Italia e per l’Europa, in autunno comincia l’anno della verità.