L’interrogativo maggiore dietro il Nazareno bis che si profila tra Matteo Renzi e Silvio Berlusconi riguarda il comportamento delle truppe. Quanti seguiranno i rispettivi leader? La domanda in realtà presuppone che B. e R. siano ancora dei leader in grado di mobilitare persone, apparati, centri di interesse, lobby. La cosa non è scontata per nessuno dei due, anche se sul fronte della sinistra si sono già consumate scissioni a ripetizione che riducono di molto il rischio di frane nel versante renziano. Più problematico capire che cosa succederà a destra, dove si pone una questione davvero inedita.
Finora chi aveva mollato Silvio era finito male suo malgrado. Pensiamo ai vari delfini del centrodestra, o aspiranti tali, che si sono succeduti negli anni: Pierferdinando Casini, Gianfranco Fini, Angelino Alfano. Si sono presi i loro rischi ed è andata come sappiamo. Ma nel pattuglione degli inabissati vanno annoverati anche due premier di centrosinistra. Enrico Letta nel 2013 aveva i berlusconiani in maggioranza con sé; poi lasciò al Pd libertà di votare per la decadenza del Cavaliere da parlamentare e la strada si fece in salita finché dovette alzare bandiera bianca. Dopo di lui, nel 2015, Matteo Renzi stracciò il Patto del Nazareno quando puntò su Sergio Mattarella per il Quirinale senza consultarsi con l’alleato ombra. La vicenda assomiglia un po’, fatte le debite proporzioni, a quello che è accaduto di recente tra Salvini e Berlusconi sulla nomina di Marcello Foa a presidente Rai. Anche per Renzi l’inizio della parabola discendente coincise con l’allontanamento del Cav nella convinzione di riuscire a farcela da solo.
Ora invece per la prima volta potrebbe non scattare più la regola del “chi tocca Silvio muore”. Con la scelta di correre da sola in Abruzzo, la Lega lancia una sfida drammatica a un partito, Forza Italia, che sembra ormai spaccato in due. Da un lato il cerchio dei pretoriani del Cavaliere formato dalla vecchia guardia dei Letta, dei Confalonieri, dei Tajani, delle Gelmini: gente che deve tutto al Cavaliere e nulla al mondo potrebbe indurli ad abbandonarlo al suo destino. Ma i più giovani hanno un futuro da costruire e un presente da difendere, fatto anche di poltrone.
Giovanni Toti, per esempio, che non intende rinunciare a governare la Liguria anche perché tra la Lega e lui (e tra lui e la Lega) c’è sempre stata lealtà. Probabile che Toti non voglia immolarsi per Silvio, soprattutto se Salvini modificherà ancora la ragione sociale leghista creando un contenitore in grado di accogliere i transfughi azzurri in un partitone nazionalista. Come Toti ci sono altri che già ora sentono il richiamo della sirena leghista, come Nunzia De Girolamo o Alessandra Mussolini, o amministratori locali come la milanese Silvia Sardone, recordwoman di preferenze al consiglio regionale lombardo che proprio pochi giorni fa è passata al gruppo misto con la motivazione, ricalcata pari pari da Salvini, che “Forza Italia si sta spostando verso il Pd”.
A gran parte dell’elettorato berlusconiano (forse alla quasi totalità) Salvini crea molti meno problemi di Renzi. Molti amministratori locali azzurri, sensibili agli umori degli elettori assai più di chi viene catapultato in Parlamento grazie all’indicazione dei leader, sarebbero pronti a seguire la sua strada. Non è un caso che il guanto di sfida lanciato da Salvini abbia come teatro un’elezione amministrativa, quella dell’Abruzzo: la minaccia di rompere definitivamente il centrodestra, l’asse elettorale che il 4 marzo ha sfiorato il 40 per cento, si materializza sul territorio. E se le cose non dovessero andare come Salvini si augura, si potrà sempre dire che l’Abruzzo è una regione periferica e non così significativa. Perciò si andrà avanti.