Scrive il Foglio che la misura di questo governo è la dismisura. E forse è proprio così. In ogni sua manifestazione – e le reazioni al crollo del ponte di Genova lo confermano – riesce a collocarsi al di sopra delle righe finendo col trasformare in torti le ragioni che le circostanze s’incaricano di dargli. Proprio tornando a Genova, infatti, non c’è dubbio che se si dovesse dimostrare colpevole di qualche mancanza la società Autostrade dovrà essere perseguita fino al punto da perdere la concessione e pagare dazio. Ma nei termini della legge, rispettando i patti e i contratti, e non sull’onda dell’emotività.



Uno dei princìpi cardine della società liberale – alla quale ancora speriamo di appartenere – è il rispetto della rule of law cosicché gli uomini, tutti gli uomini e dunque anche gli avversari politici, debbano rispondere al complesso di norme vigenti e non al volere di chi ha conquistato il comando. Ci si sottomette alla legge, insomma, e non al capriccio di altri uomini per evitare che il potente di turno possa cadere nella facile tentazione di abbandonarsi ad abusi, prepotenze, vendette, usando il ricco armamentario di cui può disporre contro un nemico da combattere e possibilmente da abbattere.



Quando si emettono sentenze senza processo si cade nel buco nero delle società illiberali. Dove può esser comodo vivere quando si dettano le regole ma lo è molto meno quando le regole si subiscono ed è difficile esercitare il diritto alla difesa perché la condanna è decisa dalla piazza abilmente manovrata.

Chi rompe paga, ha detto il vice premier Di Maio ricorrendo alla saggezza di un vecchio detto popolare. E ha ragione. Chi rompe paga. Ma bisogna che la responsabilità sia accertata in modo inequivocabile da soggetti terzi a questo deputati. Altrimenti al danno, irreparabile, si somma altro danno. A che serve altrimenti il sistema di pesi e contrappesi studiato e applicato, chi meglio e chi peggio, da tutte le democrazie a garanzia del bene supremo della libertà? Chi rompe paga, certo. Ma alle condizioni e nei modi che risultano da quel collante della società che sono le leggi.



Non possiamo aspettare i tempi della giustizia, ha spiegato il premier Conte. E a prima vista sembrerebbe aver ragione perché questo è il sentimento generale. Della giustizia, dei suoi riti, delle sue lungaggini, della sua superficialità e della sua imperdonabile parzialità, si fida sempre meno gente. Ma se ad ammetterlo è il presidente del Consiglio il quadro si complica. Se non possiamo affidarci alla giustizia dell’uomo sull’uomo, per le cose che abbiamo detto, e siamo portati a diffidare di quella scritta nel corpo delle leggi per la sua contraddittorietà e l’uso distorto che ne viene fatto il problema è serio.

Proprio per questo, e a maggior ragione, bisogna fare un uso accorto delle parole che possono provocare reazioni non desiderate e a lungo andare pericolose per la tenuta del Paese. Dal quale, è bene ricordarlo, si può decidere di andar via per diverse ragioni. Nessuna delle quali è una buona notizia.