Gli applausi ai Vigili del Fuoco e al nuovo governo, agli alfieri del cambiamento. I fischi alla vecchia guardia della politica, a quel Pd che a Genova aveva un feudo e con decenni di immobilismo ha permesso che venisse espugnato. Le lacrime. La rabbia e il dolore composti, dignitosi fino all’estremo. E poi la tardiva presa di coscienza di Società Autostrade, la loro proposta di ricostruire il ponte crollato e l’istituzione di un fondo da 500 milioni per gli interventi immediati. Il no sdegnato di Luigi Di Maio, perché «lo Stato non accetta l’elemosina». Non so come andrà a finire la brutta vicenda di Genova. Non so se il Governo davvero procederà alla revoca della concessione ad Atlantia o se cadrà prima di poterlo fare, so che tira una brutta aria in questo Paese. Davvero brutta.



Prima, permettetemi, di mettere la questione in prospettiva, poi vi dico la mia sul tema, salvo da domani tornare ai miei temi di più stretta attinenza (non che il destino del mio Paese non solo sia). In attesa dell’organizzazione di roghi pubblici di maglioncini e t-shirt della Benetton, guardate questa “torta” relativa alla composizione azionaria della holding che controlla Autostrade: è tragicamente ironico notare come in tanti non siano consci dell’ottima probabilità di avere azioni Atlantia nel loro piano di investimento o gestione del risparmio (la voce “Italia” della composizione azionaria della holding che controlla Autostrade che c’è qui sotto, dove è presenta una non secondaria ancorché misconosciuta componente retail). O che le abbia magari il vicino di casa tanto gentile e sempre disponibile o il barista all’angolo che per i morti di Genova ha addirittura versato una pubblica lacrima o il nostro migliore amico, un sincero democratico. Perché è roba da “cassettista”, l’esatto contrario di uno speculatore.



In base a certe logiche massimaliste che circolano libere e ribelli in questi giorni, nessuno è innocente. Ma gli “assassini” da giubilare e crocifiggere sono solo i Benetton (cosa pure probabile che lo meritino per la vicenda in questione, ancorché in ottima compagnia e al netto di una bella speculazione politica dei morti, in atto vergognosamente da entrambe le parti). Quindi, al netto dell’ipocrisia, la morale è che o si mette in discussione l’intero sistema in cui viviamo (con ciò che esso comporta per le nostre abitudini, le nostre comodità e i nostri risparmi, però) oppure stiamo solo pettinandoci l’ego. E niente più. Perché nessun banner contro BlackRock o il Fondo sovrano di Singapore sui social network? Perché, soprattutto, nessuna campagna di name’n’shame, come dicono in Gran Bretagna, dei nostri connazionali che non si vergognano di avere titoli Atlantia in portafoglio (o, stando alla vulgata oggi imperante, che addirittura non si vergognano di avere un portafoglio d’investimento tout court).



Parliamoci chiaro, qui non c’entra nulla il ponte in sé: qui siamo alla vendetta politica pura e semplice. E, cosa ancora paradossalmente più grave, alla strisciante messa in discussione del concetto stesso di mercato e impresa privata, criminalizzata come nemmeno ai bei tempi del Pci che guardava all’Urss come modello. Perché se così non fosse, qualcuno dovrebbe aver posto il suo indice accusatore contro l’attivismo di BlackRock, non certe delle dame di San Vincenzo, presente (tutt’oggi o fino al recente passato) nell’azionariato di Unicredit, Intesa San Paolo, Mps, Azymut (cantieri navali), Prysmian (tecnologie energetiche), Ubi Banca e Telecom Italia. Anche loro, stando al giustizialismo da assalto alla Bastiglia in atto, hanno le mani piene di sangue. Che si fa, si scaricano tutti quei titoli? Si chiudono i conti correnti in quelle banche? Si costringe BlackRock alla resa e all’abbandono degli investimenti in Italia, tanto si nazionalizza tutto adesso?

No, i Benetton scontano la vendetta grillina ad anni di cosiddetto capitalismo di relazione, all’intreccio perverso fra politica e imprenditoria. A destra come a sinistra. Atteggiamento sterile e puerile, ma capibile se sei ancora all’opposizione e non aneli ad abbandonare quel comodo avamposto. Ma se sei il partito di maggioranza relativa nel Paese e sei al Governo, esprimendo ministri e vice-premier, allora no. Non va bene. Perché la tua sete di rivalsa pregiudica il tuo giudizio su scelte strategiche per il Paese. In tedesco c’è una splendida parola che descrive quanto è in atto nel nostro Paese sotto il governo giallo-verde: schadenfreude, il godere delle disgrazie altrui. Bene, esattamente come durante gli anni di Tangentopoli, il nostro Paese è attraversato da un’irrefrenabile epidemia di questo brutto ma seducente sentimento. Anzi, possiamo dire che quell’atteggiamento è al potere. Sia il nemico l’imprenditoria, la Borsa, i migranti, i “comunisti” o i “parassiti”, come qualcuno ha delicatamente definito in blocco i dipendenti Rai, quando si è avuto l’ardire di bloccare la nomina di Marcello Foa alla presidenza.

Perché signori, fatte salve le anime dolenti e inconsolabili di parenti e amici delle vittime che hanno accettato i funerali di Stato e la carne viva del dolore rappresentata da chi ha prestato soccorso senza sosta e senza distinguo, non c’erano pietà, né dolore autentico nel padiglione della Fiera di Genova sabato, né tantomeno nella cattedrale laica e globale per antonomasia chiamata televisione, la quale ha rimandato in diretta e in tutta la nazione quelle immagini di strazio inaccettabile. C’era assertività rabbiosa e vendicativa, c’era soprattutto un’assenza totale e totalizzante del concetto stesso di dubbio, c’era l’alba del condannato a morte vista attraverso il riflesso della lama della ghigliottina social e della Rete. E del facile consenso di cui gode il liberatore sanguinario, sostanziato da quegli applausi divenuti non a caso titoli d’apertura di tutti i giornali e tg.

Io posso capire, posso accettare che la gente, anche quella che non aveva amici o parenti sotto quelle macerie, cerchi conforto nella giustizia sghemba e afona della vendetta. È umano. Conforto ma non cordoglio. Né, tantomeno, consiglio. Tanto più se ad affidarsi a quel consigliere infido e avvelenato è chi dovrebbe operare per il bene del Paese, di tutti. Il bene comune. Perché un gregge guidato da un pastore fallace e maldestro, come lo è ontologicamente l’uomo, magari trova comunque la strada del ritorno verso l’ovile. Mentre quello guidato da un pastore cieco è destinato a vagabondare senza meta ma con l’unica consolazione di millantare quel cammino circolare verso il nulla per libertà, per cambiamento, per rivoluzione.

Il caos non è rivoluzione, il caos è primazia dello status quo che cerca nuovi equilibri, intorbidendo le acque. Così come la vendetta non è giustizia. Quantomeno non lo è quando, forti di applausi che sono reazione rabbiosa ed emotiva all’esasperazione (e qui sì che, chi ha governato prima della coalizione giallo-verde, dovrebbe recitare un chilometrico mea culpa), infila la casacca della propria squadra niente meno che alla morte, lasciando la pietà a cercare nuovi lidi su cui poggiarsi stanca, in questi giorni di vento e nuvole nere. E se per quanto riguarda l’M5S la cosa non mi stupisce, essendo la rivalsa sociale assertiva e culturalmente livorosa il marchio fabbrica, mi pare strano che Matteo Salvini, mio coetaneo ma nella Lega fin dagli albori, si sia scordato che dietro a un cappio sventolato rischia sempre di nascondersi un Patelli. O un Belsito.

Tutta la Lega è così, marchio d’infamia generalizzato e senza possibilità di redenzione? Oppure la realtà è un po’ più complessa, pur nella sua frequente indigeribilità? Il buon Giancarlo Giorgetti, da uomo e politico saggio qual è, ha infatti invitato tutti a mettere una bella foto di Matteo Renzi sul comodino, tanto per ricordarsi sempre come il tragitto dalle stelle alle stalle sappia essere breve e impietoso. E questo non vuol dire che chi sbaglia non debba pagare, anzi. Deve pagare e per intero. Ma quando sento un presidente del Consiglio, oltretutto uomo di diritto, dire che il Governo non può attendere i tempi della giustizia, di fatto esautorando la magistratura del suo ruolo e avocando a palazzo Chigi poteri non suoi, a me vengono i brividi. Culturalmente e umanamente, prima che politicamente.

Attenzione, amici. perché tira una brutta aria, lo ripeto. Come scriveva il mio autore preferito, Arthur Schnitzler, «quando l’odio diventa codardo, se ne va mascherato in società e si fa chiamare giustizia».