Dopo aver giocato da Pm di sfondamento in Mani Pulite, Antonio Di Pietro toccò l’apice della sua carriera politica come ministro delle Infrastrutture, nel primo e nel secondo governo Prodi: quelli che privatizzarono le Autostrade presso la famiglia Benetton e prorogarono la concessione fino al 2038 in cambio dell’investimento nella Variante di Valico sull’Autosole (il governo Letta ha infine prorogato la concessione al 2042 a fronte dell’impegno alla realizzazione della Gronda di Genova). Se fu Prodi a stoppare politicamente nel 2007 il tentativo di vendita di Autostrade ad Abertis, fu Di Pietro a confrontarsi direttamente con i Benetton che cercavano sponde nella Ue. “Ricordo ai Benetton che sono loro ancora in debito di 2,5 miliardi di opere non realizzate”, tuonò il ministro.



Concessioni austostradali, investimenti promessi e congelati, impegni, denunce e pretese, pedaggi e indennizzi, pressioni dei mercati. Eterni scontri sotterranei fra politici e burocrati che mai avrebbero voluto la morte dell’Anas e sognano da sempre resurrezioni e rese dei conti; e interessi privati di ogni sorta cementati attorno alla ricca privatizzazione di un monopolio nei felici anni ’90. E naturalmente magistrati in azione: quelli delle Procure e quelli più o meno prestati al governement o, tout court, alla politica. (Colpisce, peraltro, in questi giorni, il silenzio sul caso Genova di Raffaele Cantone, il magistrato super-vigilante sulla legalità di gare e appalti pubblici). Quello cui gli italiani assistono in questo tragico agosto 2018 è comunque uno spettacolo tutt’altro che nuovo.



Chi accusa (pur con qualche motivazione formale) il governo giallo-verde di forzare lo Stato di diritto sulla revoca della concessione, difende nel contempo la segretezza degli atti di concessione (esattamente come nel caso dei derivati firmati dal Tesoro italiano negli stessi anni ’90). Dimentica il diritto alla sicurezza negato ai 41 morti di Genova e non s’interroga sulla legittimità sostanziale del diritto concesso anno dopo anno ad Autostrade di aumentare i pedaggi anche in tempi di inflazione zero.  E non fosse stato una perdita netta per l’intero sistema-Paese, il pesante ribasso di Borsa accusato da Atlantia dopo il disastro e la minaccia di revoca della concessione, potrebbe essere considerato lo scoppio di una bolla, traumatico ma ancora parziale. Il titolo Autostrade fu collocato nel 1999 a 6,75 euro, è arrivato a toccare i 28. al netto dei dividendi distribuiti ogni anno.



(Nei primi anni 20 il fascismo fu sostenuto dai grandi industriali che avevano accumulato “sovrapprofitti di guerra” contro le forze politico-sindacali popolari e socialiste che sollecitavano migliori condizioni di lavoro e vita per i reduci. Lo Stato di diritto non è solo fatto di leggi e convenzioni con gruppi finanziari privati, vi rientrano “contratti sociali” più ampi e politicamente più importanti. Il tycoon repubblicano Donald Trump ha affondato colpi elettorali vincenti nel ventre molle della Corporate America, le infrastrutture pubbliche abbandonate a se stesse soprattutto dai “democratici di mercato” dell’era Clinton-Obama).

Più di meno quando il ponte Morandi venne progettato, la tragedia del Vajont coincise drammaticamente con la svolta politico-finanziaria della nazionalizzazione e concentrazione nell’Enel dei gestori elettrici locali: compresa la Sade, che aveva costruito la diga di Longarone. A posteriori, lo Stato di diritto funzionò poco nell’individuare e punire i responsabili e nell’indennizzare le vittime. Neppure gli indennizzi nazionalizzatori agli ex gestori elettrici privati fecero di meglio. Non iniettarono sviluppo, ma alimentarono soprattutto guerre finanziarie intestine all’Azienda-Italia: nacque la Montedison, ma trent’anni dopo era già sparita nel gorgo di Tangentopoli, assieme a tutta l’industria chimica nazionale. E mezzo secolo dopo, un mercato liberalizzato e parzialmente riprivatizzato di produttori d’energia vigilati da un’authority indipendente aiuta ancora troppo poco il sistema-Paese a recuperare i gap competitivi di produttività industriale.

Il disastro di Genova ha un bilancio assai meno grave rispetto al Vajont in termini di vite, ma sembra toccare dimensioni altrettanto profonde della coscienza civile nazionale, sondare linee di frattura complesse, contenere indizi di sommovimenti ampi. Non c’è da ricostruire solo un ponte, ci sono da riannodare fili spezzati nelle relazioni fra cittadini-consumatori, Stato, imprese, strutture e meccanismi di controllo politico e tecnico della democrazia di mercato.

Non sorprende che M5S abbia prospettato la creazione di una commissione d’inchiesta sulla gestione delle infrastrutture in Italia. Da Genova al ponte Anas sulla Milano-Lecco, dai viadotti nati morti a quelli mai nati al Sud, dall’incidente ferroviario di Pioltello al frontale sul binario unico in Puglia, gli scricchiolii nella rete dei trasporti nazionali sono ormai troppi, troppo gravi. Mentre la Ue sconta l’avvio della privatizzazione delle Fs nel bilancio pubblico italiano, la nuova coalizione di governo a Roma vuole aprire un processo politico alle privatizzazioni italiane degli anni 90. È un sentiero che appare fin d’ora stretto, ai limiti dalla praticabilità.

Da un lato vi è un precedente freschissimo: la commissione Casini sulle crisi bancarie. Un fallimento annunciato, un passaggio inutile: a evitare i crac bancari del 2015-2016 e risolvere le crisi tuttora in corso; a risarcirne i risparmiatori colpiti; a sostenere lo “Stato di diritto bancario” con dosi ricostituenti di fiducia. Un pezzo dello Stato di diritto – un’istituzione parlamentare” – è stata piegata in modi brutali alle esigenze della campagna elettorale. Una commissione d’inchiesta sulle infrastrutture corre ora il rischio serio di “istituzionalizzare” la campagna elettorale permanente che sta connotando sia tanto l’azione di Luigi Di Maio che quella di Matteo Salvini all’inizio della legislatura.

È però altrettanto evidente che se governo e forze politiche non saranno in grado di fornire risposte politiche alle diverse crisi strutturali messe a nudo dal crollo del Morandi, lasceranno alla magistratura tutti gli oneri ma anche tutte le opportunità di recuperare spazi nella democrazia sostanziale. Come quando uno sconosciuto Pm di Milano, nel febbraio 1992, cominciò a prendere sul serio una piccola irregolarità nelle piccole forniture di un piccolo ente comunale di Milano.