“Ha ragione la signora Said”. E’ il verdetto raggiunto in un processo simulato, celebrato al Meeting di Rimini con la partecipazione di giuristi d’eccezione: presidente Sabino Cassese, giudici a latere Francesca Martines e Andrea Simoncini. La “moot court” viene usata come palestra nella formazione giuridica anglosassone per far fare pratica forense agli studenti. Si affronta un caso concreto, complesso, come quelli che sempre più spesso mettono in crisi, in Italia e non solo, i giudici e i politici. Proprio come il ponte crollato di Genova e la selva di regole e opposti interessi tra i quali il governo Conte sta tentando di districarsi.



Ha ragione la signora Said o il datore di lavoro?

Ha ragione la signora Said. Nel caso in questione, quello di una persona di religione musulmana per cui tenere il velo è un obbligo religioso, il diritto alla libertà religiosa non è stato contemperato con la libertà di organizzazione dell’impresa. Ci sarebbero stati altri modi con cui si poteva ovviare al problema senza per questo arrivare al licenziamento. Quindi c’è stata una discriminazione.



E in caso di un vincolo che non sia religioso ma etnico?

Il risultato non cambia, perché il problema riguarda la discriminazione sotto ogni punto di vista, quella religiosa ma anche quelle di altro tipo.

Lei frequenta il Meeting da diversi anni. Perché questo accento sul conflitto tra libertà e regole nello spazio pubblico?

Perché libertà e regole sono tendenzialmente in conflitto tra di loro. Lo spazio pubblico cerca o produce sempre degli effetti di limitazione delle libertà, e quindi bisogna trovare ogni volta dei bilanciamenti equilibrati tra tutti gli attori, appunto, dello spazio pubblico. 



Come mai in passato questo rapporto era pacifico e adesso non lo è più?

Perché oggi le nostre società stanno diventando sempre più plurietniche, plurireligiose, pluriculturali e quindi al loro interno diminuisce l’omogeneità. Questo fa sì che il bilanciamento delle diverse esigenze è sempre più necessario.

Insomma, più regole.

Se sono necessarie, sì. Delle regole c’è sempre bisogno perché ogni vita collettiva ha bisogno di comportamenti che siano non conflittuali, nella misura in cui abbiamo punti di vista diversi e vogliamo tollerare punti di vista diversi. Le regole possono essere spontanee, o imposte, o condivise. Ma è importante averle.

Dopo il crollo di Genova nel governo c’è un acceso confronto sulle regole stipulate tra concedente (Stato) e concessionario (Autostrade per l’Italia). La concessione andrebbe revocata?

Io penso che la concessione possa essere senz’altro revocata, ma alle condizioni che sono previste nella convenzione, in particolare agli articoli 8, 9 e 9bis (risarcimento, ndr). In altri termini, non si può fare come se quanto previsto dalla convenzione non ci fosse. C’è un patto e il patto scrive delle regole: il concedente non si può svegliare un giorno e dire “cambio le regole”.

C’è poi altro tema che si sovrappone a questo: la eventuale rinazionalizzazione successiva alla revoca. Cosa fare?

Mi limito a ricordare un piccolo dettaglio: in Italia c’è un’autostrada che non è in concessione ed è la Salerno-Reggio Calabria. Chiunque sappia in quali condizioni versa la Salerno-Reggio e la paragona all’Autostrada del Sole, 755 chilometri costruiti in soli 8 anni in un territorio tra i più difficili del mondo, può darsi da solo una risposta. Gestione diretta dello Stato non è sinonimo di gestione buona ed efficiente.

“Non possiamo attendere i tempi della giustizia penale”, ha detto ieri Conte al Corriere. Un altro conflitto, quello tra i tempi e le procedure che servono alla nostra macchina burocratica per arrivare a sentenza e “interessi dei cittadini”. Come commenta?

Mi meraviglia che un uomo di governo faccia una dichiarazione di questo tipo. Dovrebbe rispettare l’indipendenza dell’ordinamento giudiziario, senza comportarsi come un accusatore nei confronti di un altro potere dello Stato. 

Nel suo editoriale del 13 agosto (“Gli Stati non sono sovrani”) lei ha scritto che il momento che stiamo vivendo è segnato dalla loro “interdipendenza”. Visto che non siamo interamente sovrani, era meglio avere un governo non eletto?

Guardi, certamente no. In Italia un governo non eletto vuol dire potere a Mussolini. 

Non vuol dire anche Monti, Letta e Renzi?

No, scusi, distinguiamo. Siamo in un regime parlamentare, e in un regime parlamentare i governi non sono eletti dal popolo ma godono della fiducia del Parlamento. Tutti i governi italiani sono stati democraticamente appoggiati dal Parlamento. L’unico governo non eletto è stato quello di Mussolini dopo la legge Acerbo.

E se l'”interdipendenza”, come quella dell’Italia rispetto all’Unione Europea, priva uno Stato e i suoi cittadini della facoltà di determinare le politiche economiche?

Nessun contratto nessun accordo priva l’Italia della facoltà di attuare una propria politica economica. I Trattati europei sono stati liberamente firmati dall’Italia. In secondo luogo qui non c’è qualcosa di meno, c’è qualcosa di più: invece di esserci solo i vincoli che derivano dalla necessità di non fare troppi debiti, ci sono anche vincoli nei confronti degli altri Stati. Se lei fa parte di un condominio, ha dei vantaggi, ma deve anche rispettarne le regole. E’ la stesa cosa.

(Federico Ferraù)