Chissà come sarebbe andata a finire la crisi di Cuba, nell’autunno 1962, se JFK non fosse stato il primo presidente Usa cattolico, perché di radici irlandesi. Ma, soprattutto, se il papa non fosse stato Giovanni XXIII: un sacerdote che l’odore del gregge indosso lo aveva avuto per davvero da giovanissimo fra le cascine bergamasche, ma anche in seguito quando fu a lungo nunzio nei Balcani. Un pontefice che, da malato quasi terminale, aveva trovato la forza di ricevere la figlia del leader sovietico Kruschev: voleva che portasse al padre il suo grazie per avergli dato retta in quelle ore frenetiche, per non aver scatenato la guerra nucleare sul pianeta. Per aver scelto alla fine il bene comune, non il male sicuro, evidente per tutti. E tutto doveva essere fatto rapidamente, overnight, come sanno bene i diplomatici esperti, e Papa Giovanni lo era stato per lunghi anni. Ma il capo della Chiesa cattolica non poteva farlo che scommettendo sulla Provvidenza, fidandosene, cooperando attivamente con la sua fantasia, realizzandola “lì e allora”: come San Giovanni XXIII ha fatto dal primo all’ultimo giorno del suo pontificato. 



Quando ieri sera la crisi della nave Diciotti — non così piccola e marginale come poteva sembrare — ha trovato una soluzione inattesa, sorprendente e positiva per impulso rapido ed efficace di Papa Francesco, il pensiero è corso anche ai giorni della crisi di Cuba, appena successivi all’apertura del Concilio Vaticano II. Il pontefice, ieri, era assorbito dall’impegno gravosissimo della visita in Irlanda, ma non si è limitato a tener d’occhio la crisi dei migranti con epicentro italiano. Nella serata di ieri è stato lampante che il suo “grido di vergogna” di fronte alle vittime della pedofilia e la sua azione — diplomatica e misericordiosa — a favore dei migranti-simbolo della nave ormeggiata nel porto siciliano hanno avuto lo stesso peso nella sua giornata di pontefice, di vescovo, di cristiano. Non c’è stata soluzione di continuità fra un gesto e l’altro, fra la fede capace di scuotere la realtà geopolitica (l’eredità viva di San Giovanni Paolo II) e la “sapientia cordis” di San Giovanni XXIII.



Sarà ora compito dell’Europa — certamente non solo dell’Italia — comprendere quale opportunità (provvidenziale) sia stata regalata dall’atto di fede, speranza, carità (e dolore) pronunciato ieri dal Papa “venuto dalla fine del mondo”, per evitare un’implosione altrettanto rischiosa che una minaccia di guerra nucleare.    

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