Ha certamente ragione Stefano Folli quando osserva che il vero “scandalo Rai” è la continuità di una gabbia normativa obsoleta – veramente scandalosa – per il mercato televisivo italiano. Il quale avrebbe bisogno di una riforma  strutturale che recuperasse sugli enormi cambiamenti della media industry digitale: aprisse la concorrenza, liberasse imprenditorialità, abbassasse i costi i prezzi e alzasse la qualità dei contenuti. Invece sul “caso Foa” il duopolio televisivo è felicemente incartato attorno l’ultima pseudoriforma varata dal governo Renzi esclusivamente per le nomine Rai.



Mostra un po’ meno ragione e ragioni, il commentatore di Repubblica, quando cita il ruolo di Silvio Berlusconi nel “caso Foa” essenzialmente sul versante politico. Ma Repubblica è in compagnia pressoché totale degli altri organi d’opinione nazionali nel dimenticare di aver cavalcato per un quarto di secolo il conflitto d’interessi politico-televisivo del Cavaliere, salvo mettersi improvvisamente a tifare per lui perché non è stato consultato sulla nomina dei vertici Rai. 



Lo stesso premier-monopolista che espulse Enzo Biagi e Michele Santoro da Viale Mazzini è divenuto di colpo un eroe democratico perché si oppone (“per ora”…) da un letto d’ospedale all’insediamento di un Presidente Rai. Ma nel frattempo nulla è cambiato rispetto al 1994 o al 2001 o a tutti gli anni successivi: Berlusconi resta il padrone di Mediaset all’interno di un duopolio disegnato ancora al tramonto della Prima Repubblica. L’ultima volta che il Cavaliere ha beneficiato di questa posizione è stato nel mese recente dei Mondiali di calcio: i cui diritti tv (cioè i cui ricavi e margini a conti fatti ma largamente prevedibili) sono stati lasciati dalla Rai targata Pd e pagata a pie’ di lista da canone e “contratto di servizio” a Mediaset, società quotata in Borsa con controllo Fininvest. 



Ma nelle settimane precedenti e a cavallo del 4 marzo è accaduto anche altro. La  Cassa Depositi e Prestiti a controllo Tesoro-Fondazioni ha rilevato sul mercato il 5% di Telecom, società privata quotata, intervenendo a sostegno di un fondo-raider come Elliott nella contesa finanziaria con il socio di maggioranza francese Vivendi. Quest’ultimo è lo stesso che aveva messo sotto assedio (finanziario) la stessa Mediaset e aveva chiaramente nelle sue strategie la creazione di un polo-media innovativo e di respiro globale. 

Contro questo progetto il duopolista Berlusconi – fortemente candidato a una coalizione Nazareno con il Pd di Matteo Renzi, se gli italiani non avessero punito entrambi alle urne – ha dunque goduto della protezione del governo Gentiloni-Calenda-Padoan e in concreto del puntello finanziario della stesa Cdp: ma non quella delle recenti nomine Lega-M5S, subito accusate di voler utilizzare il risparmio delle famiglie italiane per salvare Alitalia o Iva. A governare la Cdp che ha fatto scudo a Berlusconi e all’immobilismo televisivo autarchico erano i vecchi vertici nominati dal Pd. 

Mentre i commentatori finanziari internazionali stanno tenendo sotto pressione Fca perché il suo silenzio sulla salute di Sergio Marchionne potrebbe aver violato le regole del mercato, su un altro grande quotidiano italiano si legge che l’unica “regola” che va ripristinata nel caso Rai è quella non scritta di nominare una figura “terza”,  di garanzia fra maggioranza e minoranza (magari un ex direttore di quello stesso quotidiano). Nessun accenno – a 28 anni dalla legge firmata da Mammì, peraltro rispettabile esponente dell’Italia laica e riformista – al fatto che tutte le altre regole scritte consentono tuttora a un singolo imprenditore privato a capo di un impero finanziario pluri-quotato in Borsa di godere in via privilegiata ad accesso informativo e potere di condizionamento sulle strategie del duopolista pubblico del mercato televisivo.