L’impressione è che, guardando i titoli dei grandi giornali e quasi addormentandosi di fronte ai talk show televisivi estivi, si scriva e si tenti di parlare di tutto distrattamente, con una ripetitività ossessiva di alcuni temi. Ma la sensazione è che intanto si attenda il “giorno del giudizio”, il grande rebus che nasconde questo nuovo governo giallo-verde, assestato al momento su una maggioranza molto ampia, superiore al 60% secondo gli ultimi sondaggi. C’è chi, nella maggioranza, come il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Giancarlo Giorgetti, buon conoscitore della grammatica politica, fa i debiti scongiuri e mette tutti sull’avviso, pensando a questa maggioranza di governo tanto ampia.
Negli ultimi dieci anni, dove il luogo comune è diventato legge e si è straparlato di seconda e terza repubblica (del tutto immaginarie o immaginifiche), all’ombra di un neologismo paracomico, “la narrazione”, si è seguito questo ordine di scadenze: nel 2008 trionfo di Silvio Berlusconi, con una maggioranza grande e solida nei numeri, franata in contraddizioni interne e sotto i colpi dello spread nel 2011. Si dice che il Cavaliere non sia mai morto, ma politicamente non si può dire che goda di buon salute. Poi è arrivato il “professore” per antonomasia, oggi senatore a vita Mario Monti, che partiva da un gradimento superiore all’80% e che oggi, tranne per alcuni sedicenti esperti, non è solo stato dimenticato, ma risulta nella memoria a livello popolare il governo peggiore di questo periodo storico. Nel 2014 infine si insedia il giovane rampante, Matteo Renzi. “Orejas y musica”, avrebbe commentato il grande Gianni Brera, dopo che il segretario del Partito democratico fiorentino prende più del 40% alle elezioni europee e raccoglie voti e consensi a sinistra, al centro e pure a destra. Si scomodano i giudizi: nuovo Blair, nuovo Clinton, una specie di “babà col botto”. Poi è arrivato il 4 dicembre del 2016, con la catastrofica sconfitta nel referendum istituzionale, seguita dal 4 marzo 2018, con il Pd ai minimi termini e la sinistra italiana “superstite”, diventata a fatica dopo anni riformista, che sembra sull’orlo di scomparire.
È stato un susseguirsi di illusioni e di disillusioni, che ha indotto gli italiani a eleggere l’unico governo al mondo che si dichiara autenticamente “populista”, termine non scandaloso per carità, ma che fa effetto nel Paese dove trionfava una sinistra che si rifaceva alla “Quinta internazionale” sovietica, quella che equiparava, quando conveniva, il populismo al fascismo. Certamente il “trio populista”, Giuseppe Conte, Luigi Di Maio e Matteo Salvini, ogni tanto pensa inconsapevolmente a questa alternanza di “entusiasmi e depressioni” e fa, come il saggio Giorgetti, i debiti scongiuri. Perché ci potrebbe essere un’altra disillusione al momento dell’appuntamento atteso, il rebus che tutti in fondo conoscono: l’autentica ripresa del Paese.
Che cosa infatti accadrebbe dopo un’altra frustrazione? Si ricomincerebbe daccapo? Risposta difficilissima, quasi impossibile. Al momento l’esecutivo fa dichiarazioni un po’ roboanti, un po’ confortanti, un po’ concilianti: cerca di “perfezionare” la linea Minniti sui migranti, in un modo spesso bullesco tutto salviniano; tenta di correggere il Jobs Act renziano con Luigi Di Maio, che a volte appare come un “pesce fuor d’acqua”; si confronta con la realtà internazionale attraverso le garbate maniere di Giuseppe Conte, a cui non pare vero (questa è l’impressione) di essere passato dal ruolo di professore universitario a quello di “tessitore” quasi cavouriano. Forse nel suo immaginario.
Come italiani si può e si deve sperare che tutto vada bene. Ma purtroppo la realtà che si presenterà al più presto davanti agli occhi non è affatto positiva e le difficoltà da affrontare saranno molte. Il quadro geopolitico è sempre contrassegnato da confusione e contrasti, con un’Europa in difficoltà, sia in versione tedesca che in versione francese, con in più una continua filiera di dazi, promessa dal Presidente americano Donald Trump, che sta diventano uno spauracchio per i mercati. Sono in corso “guerre commerciali”, ma sono in corso anche tensioni per posizioni più strategiche e pericolose nel Medio Oriente e nel Mediterraneo. Si pensi solo alla situazione della “striscia di Gaza”. È una cornice che non lascia tranquilli, anche perché si rischia di essere coinvolti o in “pasticciacci brutti” o si può diventare improvvisamente marginali.
Poi c’è il quadro economico e finanziario a livello internazionale, che vede un rallentamento generale della ripresa dopo la grande crisi (secondo alcuni affrontata in modo inadeguato) e della crescita. Infine, dopo tutto questo, c’è il problema squisitamente italiano.
Si diceva che l’impressione è quello dell’insistenza a trattare esclusivamente solo alcuni temi. Sia chiaro: esiste certamente un problema immigrazione di durata difficile da valutare negli anni. Problema che non può essere affrontato con una disputa tra “invasione” da un lato e “xenofobia” dall’altro. Il problema è più complesso, più articolato e va affrontato con grande umanità e raziocinio, senza esasperare toni o inventandosi neo-ideologie; esiste anche un problema di legislazione sul lavoro, anche di aggiustamento o correzione del Jobs Act, di recupero di diritti sul lavoro, ma non dimenticando mai che l’occupazione non cresce con i decreti e le leggi; c’è un problema di interventi infrastrutturali, che possono seguire solo la logica dello sviluppo sostenibile. Sì, esiste infine anche il problema della Rai e del suo presidente. Come faremo se no con il prossimo festival di Sanremo?
Tuttavia questo elenco è carente, non sufficiente a delineare il vero problema italiano. Di che cosa si tratta in sostanza? Di un problema enorme che riguarda il rilancio economico del Paese, la sua crescita, il suo ruolo nell’Occidente democratico (cioè dotato di Parlamento) e industrializzato. Tutto dipende da scelte di politica economica chiare, senza le quali, in genere, si chiude la saracinesca e si va a casa. Metaforicamente. Da anni c’è una pressione fiscale intollerabile, una carenza di sostegno alla domanda interna che ha creato chiusura di aziende, impoverimento, nuove povertà, depressione spaventosa del Mezzogiorno italiano e diseguaglianze sociali intollerabili. Quale è la politica economica di questo governo?
Ecco il rebus autentico. E naturalmente l’attesa è concentrata sul prossimo autunno, intorno al documento di bilancio e alla nuova finanziaria. Che cosa ci si deve aspettare? Una politica di investimenti e consumi con un moltiplicatore da mettere in moto per rilanciare la domanda interna, oppure una risposta come quella venuta in questi anni che non ha portato ad alcun risultato?
È evidente che si dovrà discutere con l’Unione europea di queste scelte, perché i parametri di Maastricht non saranno facilmente rispettati. Inutile parlare per allusioni o cercare di non farsi capire, sapendo che c’è anche in programma una flat tax, un reddito di cittadinanza e una pace fiscale promessa. Tutto questo comporterà probabilmente un braccio di ferro con l’Europa e come si affronterà realisticamente? Già adesso un po’ di chiarezza sarebbe utile. Invece, mentre si parla al vento, si fanno solo poche ammissioni, sperando che il tutto non si trasformi in nuove disillusioni.
In questa vicenda delle scelte di politica economica indispensabile, vi è da dire che il governo è latitante, ma latitante allo stesso modo è l’opposizione: il Pd rinvia il congresso a febbraio e non si capisce che cosa esattamente voglia dire, Forza Italia ripete con forza il suo liberismo. Complimenti e auguri per il futuro, visto il passato prossimo!