Estate: è tempo di bilanci per un Governo nato dalla rivolta del popolo degli abissi e dall’inveramento definitivo della tendenza all’inversione della rappresentanza, ossia al voto per la destra classica e postmoderna insieme da parte dei poveri, degli ultimi e dei produttori nazionali. E al voto per ciò che rimane della sinistra classica trasformatasi in partiti dei diritti senza doveri e del liberismo economico dispiegato da parte delle classi alte e medio-alte e di tutti i percettori di rendite improduttive. È una trasformazione epocale che attraversa tutto il capitalismo neo-schiavistico globalizzato in un percorso iniziato in Australia quaranta anni or sono e poi nel Regno Unito e negli Usa, precipitando come un meteorite nell’Europa tecnocraticamente diretta per assumere aspetti mostruosi in Asia, con i Duterte (in versione apocalittica filippina) e i Modi (in versione politeistica indiana). 



L’Italia è una versione molto interessante di questa emersione tellurica di una trasformazione che segnerà il futuro del pianeta. Una versione specialissima: per la volontà di amalgamare antiche culture politiche, mentre, invece, si accresce la divisione delle sue borghesie, quella nazionale con le sue infinite sfumature tipiche del lavoro produttivo capitalistico e proletario insieme, da un lato, e quella ch’io chiamo vendidora perché vive e prolifera arricchendosi della subalternità con i centri esterni del capitalismo neoschiavistico, siano essi globali oppure eurocentrici.



Borghesie che hanno i loro campioni politici. L’attuale Governo è un amalgama non riuscito tra rappresentanza del popolo degli abissi e borghesie nazionali piccole e medie. Con una singolare aggiunta: taluni rappresentanti (che son ministri) del potere dello Stato profondo, non quello di cui si parla in termini spregiativi, ma di quello, invece, di cui non si parla mai. Ossia di quello Stato tecnocratico consapevole della necessità della rappresentanza politica e in vario modo disposto ad accompagnare l’amalgama nei confronti dei poteri esterni eurocratici e globali (gli Usa in primis) pur di consentire alla nazione, all’Italia, di non soccombere definitivamente a coloro che la vorrebbero dissanguata e dominata: Francia, Germania e, naturalmente, Cina. Il che chiaramente aumenta la nostra dipendenza dagli Usa: dipendenza benevola, ma che in ogni caso esalta la necessità di creatività ed esperienza governativa.



Naturalmente quest’ultima è distribuita in forma oltremodo diseguale e ciò perché riflette lo squilibrio elettorale tra Lega e 5 Stelle: questi ultimi, sconfitti sul punto che avevano rivendicato, ossia il primo ministro coincidente con il loro capo politico, son stati ricompensati con una distribuzione dei posti di governo che ne esalta la possibile capacità operativa con duplicazioni d’incarichi che sono inconsuete e oltremodo difficili (caso Di Maio ministro di due discasteri delicatissimi da cui passa gran parte della politica economica possibile, unicamente alle infrastrutture: anch’esso – quel ministero – affidato a un suo compagno di partito). Mentre ai rappresentanti della borghesia produttiva è affidato in sostanza il governo della sicurezza e del contrasto all’immigrazione con enormi ricadute politico massmediatiche e buoni risultati concreti, ma che non possono bilanciare sul piano del potere politico quello che deriva dal controllo delle politiche economiche. 

Queste risentono sin da subito della profonda inconsapevolezza – al di là delle parole e della propaganda – della necessità di cambiamento e perché sono di fatto ideologicamente subalterne al passato (e questo è il vero paradosso), come è evidente con il cosiddetto “decreto dignità”, che non fa che far proliferare leggi e provvedimenti fiscal-amministrativi che impacciano i produttori e ne consolidano le vocazioni di taluni di essi di tipo assistenzialistico invece di decisamente delegiferare e lasciare alle parti sociali la ricostruzione dell’incontro tra domanda e offerta di lavoro. E nel mentre le infrastrutture ministerialmente intese troppo ricordano l’abisso della cultura alla Pecoraro Scanio! Rimane l’area dello Stato profondo tecnocratico, ma essa pare più mortificata che mai e quando non lo è, troppo propensa a chinare il capo rispetto all’eurofilia dominante: il problema è che non è vero che non si possa concordare con l’Ue quel deficit che Germania e Francia sforano quando loro aggrada, ma che invece il debito può esser ridotto nel tempo solo con investimenti privati e pubblici secondo politiche prefigurate da tempo, per esempio, da quel lucidissimo componente del Governo che è Paolo Savona, contro il quale non a caso si è elevata la eterodipendente preclusione, solo a stento superata indebolendone il ruolo.

Il Governo è così a rischio: debole rispetto alla borghesia vendidora che in ogni modo auspica il default nelle migliori tradizioni dei quisling internazionali e debole rispetto alla macchina dei partiti di opposizione che son più forti di quanto non appaia, perché concentrano nelle loro cuspidi il potere situazionale di fatto: il soft power dinanzi al quale poco può fare una politica estera sinora assai felice e attenta al riguadagnare posizioni mediterranee clamorosamente perse per gli attacchi concentrici di Uk e Francia, unitamente all’establishment clinton-bush-obamaniano che ha portato il mondo sull’orlo della catastrofe della guerra mesopotamica e della deflazione teutonica eurocratica.

Quest’ultima continua ed è il nemico principale che il Governo non si è ancora impegnato a combattere, e questo, soprattutto questo, può essergli fatale.