La politica estera ha sempre determinato la politica delle nazioni. E’ una verità scientifica che è difficile da comprendere perché i più confondono politica nazionale con politica interna, “la politique d’abord”, come la chiamava Ostrogorsky e come amava ripetere Pietro Nenni: la “politique politicienne”, quella che è fatta oggi di scoop mediatici, di twitter, di incontri di un’ora che poi durano giorni, come nel caso dell’incontro tra il primo ministro ungherese Orbán e il viceministro e ministro degli Interni del governo italiano Matteo Salvini.



I due leader hanno impugnato il vessillo dell’Europa sicura, ossia che respinge le ondate immigratorie e che tutto il cosiddetto circo mediatico identifica con le “destre” anti-europee e “sovraniste”, orribile neologismo dall’incerta etimologia.

Orbán è un antico esponente del Ppe. Ha costruito la sua ascesa sugli errori economici e sulla corruzione del Partito socialista ungherese, che è stato blairista della prima ora e che ha portato alla rovina un’economia che anche sotto il dominio sovietico non faceva registrare performance disastrose come, per esempio, quelle sovietiche.



Orbán riflette totalmente quello che diceva Istvan Bibo, il grande intellettuale storico e giurista che fu componente del governo di Imre Nagy e che per miracolo non ne condivise — di Nagy — la fine sotto il tallone assassino dell’Urss. Bibo parla della “miseria degli Stati dell’Europa centrale”, ossia di quella Mitteleuropa che era un crogiolo di minoranze nazionali (non etniche!, ché etnia non vuol dire niente). E che soffrivano di una piccolezza di pensiero e di ambizioni che derivava loro dall’asfissia a cui le aveva ridotte la dominazione imperiale austro-ungarica: la rivolta fascista e ultranazionalista era la cura illusoria più immediata che in quelle nazioni allignavano.



Quando Orbán salì al potere, un’ intera area della nazione ungherese era stata occupata dai rom e intere zone di Budapest erano interdette alla polizia e ai cittadini di altre nazionalità. E’ quasi impensabile che il ritorno alla normalità e alla crescita economica non abbia portato con sé (oltre alla permanenza della corruzione con cambio delle comparse) quella “miseria” di cui parlava Bibo, che è così diffusa perché risponde a dei problemi reali.

Salvini ha il vantaggio di non avere dietro di sé un passato nazionale terribile come quello ungherese anche dopo la Seconda guerra mondiale (perché l’Italia tra le due guerre l’ha avuta, la sua tragedia) e quindi affronta i problemi dell’identità nazionale con maggiore immediatezza politica e senza propugnare (come invece fa Orbán) alcunché di illiberale nell’ordinamento statale.

Entrambi rivendicano, in sostanza, un’Europa che riconsegna quote di sovranità agli Stati nazionali. E lo fanno in un’Europa dove non si rispetta lo spirito dei Trattati europei, come dimostra la vicenda migratoria nel caso dei porti non condivisi e della ripartizione delle quote dei poveri migranti, vittime del traffico illegale a dominazione araba, così come è secolarmente per lo schiavismo.

La vulgata mediatica crea un gioco di specchi illusorio veramente efficace per i più. Solo alcuni “apoti” (quelli, come diceva Prezzolini, “che non la bevono”) rifiutano la vulgata secondo cui l’avversario da battere in Europa sia Macron. Il presidente francese non si è fatto sfuggire l’occasione per recuperare terreno in politica interna, dove tutto gli sta franando sotto i piedi, consegnandosi come bersaglio e autoproclamandosi non solo europeista, ma anche difensore dei diritti dei migranti.

Quelli che la bevono non hanno letto le dichiarazioni che Macron ha rilasciato durante la sua visita in Danimarca dinnanzi alla regina Margaretha e alla principessa Mary: ha cantato le lodi dei danesi, dichiarando di condividerne non solo la politica sociale, ma altresì la politica migratoria e di integrazione multiculturale, di cui è esempio preclaro, pensate un po’, la principessa Mary, che infatti è australiana! Dimenticando che la Danimarca attua i respingimenti e che il primo ministro Rasmussen è impegnato nella “eliminazione” — così si è detto — dei ghetti musulmani danesi: si parla di decine di migliaia di persone!

Se non la bevete, capite subito che Macron non è affatto il difensore dei migranti, come dimostrano Ventimiglia, le oscene vicende dei poliziotti francesi che compiono perquisizioni sul territorio di confine italiano a caccia di clandestini e molte altre vicende note agli apoti.

Che cosa sta succedendo? Succede che la Francia cerca decisamente di portare avanti il programma di una parte del suo establishment, quella che ha portato al potere in men che non si dica Macron, il quale ha, come è noto, disgregato la destra e la sinistra costituzionale francese, sconfiggendo non solo la Le Pen, ma anche le due altre famiglie politiche francesi, quella socialista e quella gaullista, che ancora non si sono riprese.

Macron aspira a far della Francia, come ha enunciato nel rituale discorso agli ambasciatori di questo fine agosto, una potenza mediatrice. Così l’ha definita. Una potenza che fa dell’essere l’unica nazione in Europa che siede nel Consiglio di sicurezza dell’Onu e che possiede l’arma atomica, una creazione di plusvalore di potenza. Questo è decisivo: oggi il conflitto tra Usa ed Europa è grave come lo fu nel 1956 con la crisi di Suez. Non c’è dubbio: lo ha detto a pochi intimi una personalità francese come Pascal Lamy, che con Michel Camdessus è stato uno dei grandi artefici del rapporto con gli Usa dopo Jean Monnet, così come lo stesso Camdessus lo è stato anche con il Vaticano.

La Francia di Macron fa paura alla Germania, perché ora che quest’ultima è la nemica più evidente degli Usa, la Francia può conquistare il predominio in Europa con una Germania divisa, indebolita e ostinatamente convinta di dover sostenere il confronto con gli Usa. Anche in questo caso la definizione di questa prospettiva inquietante è toccata al ministro degli Esteri tedesco Eiko Maas, che ha parlato per la Merkel (non per i bavaresi) e per i socialdemocratici, aprendo alla Cina in modo ancor più esplicito di quanto non si era fatto in passato. Per questo il nemico di Salvini e Orbán non può essere Macron sul tema della migrazione.

La vera battaglia in Europa, se veramente si comprende che è necessario riacquistare sovranità in economia in funzione anti-ordoliberismus, è contro tutti coloro che inseguono la follia di un’Europa autonoma dagli Usa, così come — non a caso — vogliono le borghesie vendidore di tutta Europa, di cui l’italiano Prodi è l’esempio più preclaro. Naturalmente esse sono incantate dalla Cina. Una deriva autonoma dagli Usa sarebbe il principale ostacolo a quella ricostruzione di un ordinato sistema internazionale che non può che fondarsi sulla nuova entente cordiale tra Usa e Russia in funzione anticinese. E’ l’Europa, e non la sola Francia, che deve divenire una potenza mediatrice. Questa è la vera battaglia.