L’incriminazione di Salvini incoraggia la speranza di chi nel Pd pensa a un governo con il M5s. Non è un traguardo immediato, nel senso che occorre aspettare almeno un anno per un’eventuale condanna di primo grado. E se Salvini ha fatto retromarcia nella polemica con i magistrati non è stato per una telefonata di Di Maio, ma — più verosimilmente — del suo avvocato. Da oggi il leader della Lega sul tema dei migranti è comunque un ministro degli Interni a “sovranità limitata” nel senso che non potrà ripetere la “linea dura”: sarebbe “reiterazione del reato” che automaticamente determina la richiesta al Parlamento di arresto nell’ipotesi più bonaria. Se il magistrato di turno invoca la flagranza c’è l’arresto senza bisogno di autorizzazione.



D’altra parte anche se il governo appare diviso, con vari ministri incompetenti e inadeguati e naviga a vista su superficiale impulso mediatico, in realtà si stanno sommando elementi che tendono invece a cristallizzare come irreversibile lo scenario del nuovo bipartitismo partorito dal voto del 4 marzo.

Innanzitutto c’è la fragilità delle opposizioni sulla destra e sulla sinistra che per quanto si sentano superiori sul piano morale, culturale e politico, non sono però percepite in tutti i sondaggi come alternative attuali. Contro M5s e Lega appaiono due ex 40 per cento che hanno deluso, due ex partiti: Forza Italia ingessato nel culto del fondatore galleggia sull’elettorato moderato senza alcuna iniziativa. Silvio Berlusconi certamente non ha il motto di Antonio Gramsci secondo cui “preparare i propri successori è altrettanto importante di quel che si fa per vincere”.



Nel Pd si pensa di recuperare i voti che sono andati al M5s (e anche alla Lega) demonizzando (letteralmente: “Vade retro”) Salvini e c’è anche chi applaude Fico convinto che i grillini scarichino la Lega per un governo con il Pd. Prende piede un anti-Salvini come riedizione dell’antiberlusconismo: “pericolo fascista” e “questione morale”.  

La demonizzazione serve a evitare una riflessione autocritica sulla sconfitta. Finora nessuno ha chiarito perché dopo cinque anni di governi Pd sostanzialmente monocolori il risultato è questo governo Lega-M5s. Tutti — da Renzi a Veltroni — celebrano il ruolo svolto. Al massimo si lamenta di aver perso un elettorato popolare e di essere stati negli ultimi anni troppo establishment scaricando tutto su Renzi, mentre in realtà il fenomeno viene da ben più lontano. E’, ad esempio, addirittura del 2001 la ricerca dell’Ispo di Mannheimer per il Corriere della Sera che descriveva l’elettorato di sinistra a Milano soprattutto nel “ceto medio-alto nel centro storico, mentre nei quartieri popolari si registra un calo clamoroso”.



Nessuna riflessione critica si avverte nel Pd sulle ragioni “storiche” del proprio declino. 

Il successo di Salvini si basa principalmente sul tema dei migranti in un quadro di impoverimento e insicurezza dei ceti medi trascurato da sinistra. E’ imprudente attribuirlo a un’Italia improvvisamente diventata fascista e razzista. La “percezione” che in questi anni si è generalizzata deriva dalla sensazione che l’arrivo dei migranti sia stato mal gestito e lasciato fuori controllo. Basti pensare che lo stesso presidente della Repubblica, al momento della formazione del governo Gentiloni, è intervenuto per spostare Alfano agli Esteri e avere un cambio di rotta. Minniti ha operato con efficacia tanto che è presto diventato il ministro più popolare, ma nel Pd si è reagito a questo consenso non condividendolo, ma con rabbiosa irritazione. Sia la maggioranza sia la sinistra invece di appoggiare Minniti ne hanno preso polemicamente le distanze: il presidente Matteo Orfini lo ha attaccato e il leader del partito, Matteo Renzi, ha continuato a irriderlo persino in campagna elettorale. Minniti e Calenda erano “carte” da giocare e che invece il Pd in campagna elettorale ha ripudiato.

Ma il dato di fondo è che la sconfitta del rinnovamento istituzionale nel referendum del 2016 si è rivelata uno spartiacque. Certamente la colpa principale fu di Matteo Renzi che dopo l’approvazione della riforma ha sfasciato il fronte referendario prima rompendo con Berlusconi e poi spaccando il Pd, ma il risultato ha segnato l’autoaffondamento dell’intera architettura della seconda Repubblica — da D’Alema a Berlusconi — che è stata percepita come incapace di autoriforma e di reale rinnovamento.

Da lì grillismo e leghismo sono cresciuti come nuove speranze o disperate vendette. 

Oggi l’opposizione appare nei sondaggi su un binario morto: Forza Italia punta sul ritorno in campo di Silvio Berlusconi come candidato alle europee e il Pd punta sulla riedizione di una sorta di “fronte popolare”.  

C’è però chi si rende conto che la gravità della situazione non si affronta cantando “Bella ciao”.

Dal Quirinale non si reagisce come Scalfaro di fronte a Berlusconi manovrando per il rovesciamento. Mattarella prende atto della legittimità derivante dal voto popolare e parlamentare e cerca di evitare guai al Paese operando con una sorta di “tridente” e cioè i ministri dell’Economia, Tria, degli Esteri, Moavero, e lo stesso capo del governo, Conte (che ha i vice sopra la testa), con il risultato di essere riuscito a ricostruire il rapporto con Bruxelles.

In parallelo sulla scena europea si tenta di correre ai ripari cercando di spaccare il fronte sovranista attraverso il canale dei bavaresi e di Orbán che anche nell’incontro con Salvini ha ribadito il rapporto con il Ppe e con lo stesso Berlusconi.