Sabino Cassese (Corriere della Sera, 5 settembre) rintraccia le cause della afonia della sinistra italiana (del Pd) nella crisi che ha investito le forze socialdemocratiche in Europa. Secondo Cassese la sinistra europea attraversa una crisi esistenziale: raggiunti e realizzati gli obiettivi storici per i quali essa si è battuta, non sarebbe oggi capace di interpretare nuove aspirazioni e aspettative di lungo periodo. Di qui la sua crisi. Non è la prima volta che la sinistra si trova ad attraversare un periodo di difficoltà. La sua storia, nella fase successiva alla Seconda guerra mondiale, è caratterizzata da fasi cicliche di vittorie e sconfitte. La congiuntura attuale la obbliga a confrontarsi con una serie di sfide delicate e inedite: nei due ultimi decenni sono stati messi in discussione strutture organizzative e riferimenti ideologici tradizionali della sinistra.
Dalle prime esperienze negli anni Venti agli anni Settanta del secolo scorso la socialdemocrazia utilizzò la leva della politica per conseguire, attraverso la legislazione sociale, la riduzione delle diseguaglianze. Questa impostazione condusse alla costruzione del welfare, prima nei paesi scandinavi, poi nella Gran Bretagna del secondo dopoguerra. Sulla base, come ricorda Cassese, del Rapporto Beveridge, il governo laburista di Clement Attlee definì il ruolo, gli ideali e le finalità pratiche della socialdemocrazia di governo in Europa. Attraverso la lotta alle discriminazioni, la redistribuzione del reddito, la creazione delle istituzioni del welfare, il socialismo civilizzava l’economia capitalista, ne moderava le spinte laceranti. Lo stato sociale sottraeva al mercato alcuni aspetti della condizione di vita dei lavoratori e delle famiglie — la salute, l’istruzione, la vecchiaia — garantendo un insieme di tutele sociali ed economiche. Ciò richiedeva forti politiche redistributive e flussi crescenti di spesa pubblica finanziati attraverso la leva fiscale adoperata secondo criteri di imposizione progressiva.
La migliore redistribuzione del reddito non assicurava solo la riduzione delle diseguaglianze e il consenso sociale ma con politiche keynesiane di sostegno della domanda di sviluppo economico e crescita dell’occupazione. Il socialismo democratico si veniva configurando così come “il permanente processo riparatore degli effetti insoddisfacenti del capitalismo” attraverso la redistribuzione del reddito e le politiche di welfare. Le istituzioni del welfare furono fatte proprie non solo dai partiti di ispirazione sociale ma anche da partiti e governi non di sinistra.
Nel riflettere, come invita a fare Cassese, sul declino di questa straordinaria esperienza, due punti di fondo vanno tenuti presenti: il modello socialdemocratico era sostenuto da grandi masse di salariati organizzate politicamente e sindacalmente, gli operai delle grandi fabbriche meccaniche costituivano l’asse portante dell’economia dei paesi più avanzati dell’Europa occidentale; il successo di questa complessa costruzione avveniva in economie fortemente radicate nella dimensione nazionale, con un grado di apertura internazionale limitato, così come lo erano la mobilità dei capitali e delle imprese.
Negli ultimi due decenni un tale circolo virtuoso si è incrinato a causa di mutamenti profondi che si sono prodotti nelle società europee: la rivoluzione informatica ha sconvolto i tradizionali processi produttivi, l’industria europea ha accelerato l’adozione di innovazioni tecnologiche che hanno teso a risparmiare lavoro con la conseguenza di un declino delle forti concentrazioni operaie; la globalizzazione dei mercati ha determinato una forte apertura internazionale delle singole economie. L’interazione tra questi due grandiosi processi, diffusione pervasiva dell’economia dell’informazione e globalizzazione, ha sconvolto, insieme con i sistemi di produzione, l’organizzazione del lavoro, le classi, anche i modi di vivere; ha minato i fondamentali dell’economia sociale di mercato che nel trentennio d’oro del dopoguerra si era affermata con successo grazie all’alleanza tra le politiche socialdemocratiche per la piena occupazione e le politiche keynesiane della domanda. Si sono indeboliti anche gli strumenti fondamentali dell’agire politico della socialdemocrazia: sindacati e partiti di massa, funzione redistributiva della spesa pubblica, poteri dello stato nazionale nella regolazione dell’economia.
E’ da questi dati che deve prendere le mosse una ricerca delle cause delle difficoltà in cui si dibatte la socialdemocrazia. Non nascondendosi che i caratteri della grande mutazione che ha cambiato la struttura del mondo sono di natura tale da rappresentare una vera e propria cesura rispetto all’esperienza storica della sinistra del 900. L’irruzione sulla scena del mondo globale di nuovi giganti economici ha imposto la ricerca da parte dei paesi industriali europei di un maggior grado di efficienza e competitività con la conseguenza di una più accentuata flessibilità del mercato del lavoro, di una crescente liberalizzazione dei movimenti di capitale, di un ridimensionamento dell’intervento pubblico e più in generale delle sfera di iniziativa dei singoli stati nazionali la cui capacità decisionale è entrata drasticamente in crisi. I costi dello stato sociale sono aumentati notevolmente con il mutamento delle tendenze demografiche determinando una crescente difficoltà di controllo della spesa sociale e ha preso piede il fenomeno della delocalizzazione produttiva di attività industriali in fuga dai paesi con solidi sistemi di protezione sociale.
E veniamo all’interrogativo di fondo posto da Cassese: è in grado la sinistra di venire fuori da una tale situazione? E come? Occorrerà prima di tutto una valutazione seria e meditata della globalizzazione. La globalizzazione è un grande fatto storico al centro del quale non ci sono solo drammi e ingiustizie ma anche l’emergere al lavoro moderno e ai consumi di masse umane vissute fino a ieri nell’abisso della miseria e dell’anonimato. Abbandonata al gioco senza regole delle forze che condizionano il mercato secondo logiche finanziarie e speculative, la globalizzazione provoca conseguenze sociali dirompenti.
Si avvicina il decimo anniversario dell’inizio della crisi finanziaria mondiale. Abbiamo imparato in questi anni che, malgrado mercati finanziari ampi e tecnicamente raffinati, il mondo occidentale, come scrive Gianni Toniolo, “si è risvegliato alla realtà che le crisi sono e (probabilmente) saranno a lungo con noi”. Qual è dunque la questione che non dovrebbe sfuggire ai socialisti? Occorre passare da un mondo senza governance adeguata ad una governance multilaterale capace di dotarsi di istituzioni in grado di ridurre gli squilibri e di ottimizzare l’uso delle risorse del pianeta. Una nuova strategia socialista dovrà necessariamente assumere una dimensione europea e mondiale. Senza questo orizzonte l’azione della sinistra è destinata a isterilirsi e rifluire in un ambito provinciale. Soltanto attori e culture politiche sovranazionali posseggono le risorse per condizionare processi altrimenti affidati alle tendenze spontanee del mercato. La partita è particolarmente difficile considerato l’orientamento che sembra prevalere nella politica dell’amministrazione americana e i pericoli di un’irresponsabile guerra commerciale globale da cui uscirebbero tutti perdenti.
La nuova linea di faglia nell’Europa di questo secolo passa fra due campi: chi cerca soluzioni a problemi globali dentro la propria nazione a costo di alzare ponti levatoi e chi continua a pensare che soluzioni comuni e libertà di commercio continueranno a garantire prosperità e benessere. I socialisti non potranno che essere schierati in questo secondo campo, impegnati ad affermare un governo dei processi economici a livello sovranazionale. Essi dovrebbero puntare decisamente a fare dell’Unione Europea un soggetto politico unitario in grado di contare sulla scena del mondo globale. Riusciranno a farlo? La verità è che settori rilevanti dei partiti socialisti hanno contribuito al diffondersi dell’euroscetticismo. Il successo della Brexit fu anche il risultato di un qualche disimpegno del Labour nello scontro tra il leave e il remain. Difficile dimenticare che i socialisti con la loro ambiguità favorirono la bocciatura referendaria del trattato costituzionale europeo in Francia e in Olanda. Le conseguenze negative di quella condotta furono enormi. C’è consapevolezza a sinistra che solo un approccio cooperativo può consentire di affrontare il groviglio di problemi in cui si dibatte l’economia globale?
Questo è il terreno su cui il socialismo dovrebbe dimostrare di essere una forza vitale in grado di voltare pagina rispetto alle timidezze e al profilo basso degli ultimi anni. Il terreno su cui il riformismo può reinventarsi senza cedere alla tentazione della scorciatoia rappresentata dal ritorno alle vecchie ricette del passato. Il Pd dovrebbe partecipare a questa ricerca e contribuire al rinnovamento politico e ideale della sinistra europea. Avrà la forza e la tempra intellettuale per farlo? Questo il dilemma.