L’ex direttore di Repubblica, Ezio Mauro, scrive un editoriale-denuncia contro un (presunto) boicottaggio pubblicitario decretato dal governo gialloverde attraverso i grandi gruppi a controllo pubblico. Il vicepremer Di Maio gli risponde a muso duro prospettando una normativa “a favore degli editori puri”, sulla falsariga delle sanzioni minacciate contro Autostrade. Le polemiche sul triangolo fra politica, aziende a partecipazione statale e giornali sono antiche e irrisolte, sullo sfondo dell’eterno problema dei “costi della democrazia”.



Erano i primi anni 70 quando un giovane leader Dc con molto avvenire davanti — il ministro dell’Industria Ciriaco De Mita — fece alzare molte sopracciglia con un’affermazione passata agli annali: “Improvvisamente si scopre che l’Enel finanziò i partiti, come se non si sapesse che questo è uno degli obblighi, diciamo così, sub-istituzionali dell’Ente”. L’era delle partecipazioni statali era al suo apice, anche se proprio allora iniziava una lunga transizione culminata vent’anni dopo nel doppio sisma di Mani pulite e delle privatizzazioni (ma dopo altri 25 anni il doppio nodo della legalità finanziaria della politica e dei rapporti fra big business ex pubblici e partiti appare inestricabile). 



La fin troppo oggettiva analisi-teoria di De Mita, comunque, non si limitava ai partiti ma abbracciava anche i media: allora forse più di ora ricompresi — in teoria e in pratica — fra i “servizi pubblici” per i quali in fondo era ammissibile che il “sistema democratico” sostenesse oneri più o meno propri (e perfino le banche, quasi tutte a controllo statale, esercitavano allora il credito come “servizio pubblico”). Se l’Eni controllava un suo quotidiano — Il Giorno — ancora sul finire della prima repubblica, un caso esemplare fu quello di Mmp. La Seat (divisione di Stet, potente capogruppo del monopolio statale della telefonia) creò un’apposita concessionaria per garantire raccolta pubblicitaria ai quotidiani di partito o confinanti: Il Popolo e l’Unità, l’Avanti, Il Secolo d’Italia, il manifesto, ma anche una miriade di piccole testate locali. La Mmp, in rosso strutturale, chiuse i battenti quando Telecom fu privatizzata, assieme ad Eni, Enel, Autostrade, a tutte le banche, all’Ina, infine alle Poste.



Benché Eni, Enel e Poste continuino ad essere sotto il controllo effettivo dello Stato (e Autostrade a dipendervi per concessioni e pedaggi), da un ventennio le ex partecipazioni statali sono formalmente gruppi privati quotati in Borsa. Continuano a muovere — peraltro — i più importanti budget di pubblicità e marketing dell’azienda-Paese: molte e molte centinaia di milioni di euro all’anno, a 360 gradi su old e new media. E i “tesoretti” si sono rivelati macchine distributive di ricavi editoriali niente affatto trascurabili allorché la lunga crisi economico-finanziaria e soprattutto il violento cambiamento tecnologico della media industry hanno falcidiato i proventi pubblicitari.

Secondo la Federazione concessionarie di pubblicità, gli investimenti sulla carta stampata in Italia dal 2008 al 2017 sono crollati di un terzo negli spazi ma, quel che più conta, di due terzi nel loro valore economico. E’ anche vero che la carta stampata italiana è un mezzo sempre meno interessante: a metà 2008 un quotidiano come Repubblica diffondeva oltre 440mila copie, oggi è sotto le 200mila. Nel frattempo la gestione dei budget pubblicitari dei grandi gruppi è senz’altro evoluta verso standard e best practice manageriali: ma resta un fatto che i top management abbiano continuato ad essere nominati dal Tesoro e abbiano sempre risposto ai governi di volta in volta in carica (finora due a guida Prodi, due per Berlusconi, uno per D’Alema, Amato, Monti, Letta, Renzi e Gentiloni). 

E’ su questo sfondo che Mauro — in carica alla guida di Repubblica lungo l’intero ventennio delle grandi privatizzazioni — ha dedicato un column duro riguardo l’ipotesi che il governo gialloverde, di rottura rispetto a tutti i precedenti, prema sui big spender pubblicitari pubblici o para-pubblici per favorire o punire media considerati avversari. Sono trascorsi pochi giorni da quando il ministro delle Infrastrutture, Toninelli, ha accennato in Parlamento alla “linea politica di Repubblica” sul caso Autostrade con riferimento alla presenza nel cda Atlantia di Monica Mondardini, a lungo amministratore delegato di Espresso-Repubblica e tuttora vicepresidente di Gedi. E se è stato proprio un corsivo di Mauro, pochi giorni dopo la tragedia di Genova, a far muovere qualche sopracciglio, un ex prestigioso editorialista di Repubblica come Gad Lerner, giusto nell’ultimo fine settimana, si è espresso con termini molto franchi: “I grandi giornali si sono dimostrati reticenti perché, in tempi di penuria di pubblicità, sono stati condizionati dagli investimenti degli azionisti di Autostrade per l’Italia. Abbiamo avuto un’ altra prova che, per molti anni, direttori di testate e protagonisti dell’informazione sono stati confidenti di grandi capitalisti e nello stesso tempo consiglieri dei dirigenti della sinistra”.

Come nella prima repubblica, il dossier-media rimane ovviamente satellite della questione principale del finanziamento della politica: questione che il vicepremier Di Maio ha del resto riaperto in termini anche più brutali rispetto a De Mita. “Siamo il primo governo che non ha preso soldi dai Benetton”, ha detto poche ore dopo il crollo del ponte Morandi (e i tweet di preannuncio di querela da parte dei vertici Pd non sembra abbiano avuto finora seguito).

Nel frattempo il sottosegretario alla Presidenza Vito Crimi rassicura editori e giornalisti sull’apertura di un grande tavolo di crisi per i media nazionali; ma avverte che il ripensamento degli aiuti pubblici all’editoria si annuncia non scontato (ad esempio: meglio orientare gli incentivi ai lettori digitali piuttosto che agli editori cartacei). Le domande sul tavolo si annunciano quindi numerose e pesanti.

Fino a che punto gruppi editoriali privati, quotati in Borsa, controllati da trust familiari, banche o grandi imprese (Rcs, Gedi, Sole 24 Ore, eccetera) possono pretendere nel 2018 sostegni pubblici “in nome della libertà di stampa a presidio della democrazia”? Fino a che punto è corretto tutelare giornali e giornalisti di oggi e non sostenere invece quelli di domani, soprattutto i nuovi editori digitali? E fino a che punto è possibile porre al centro del confronto la spirale negativa fra diffusione e pubblicità? Non sempre la grande stampa “costituzionale” si mostra consapevole del corto circuito con l’analisi politico-economica delle forze populiste. La coalizione Lega-M5s scalpita per uscire da una lunga recessione indotta dall’austerity attraverso tagli fiscali, redditi-sussidio, ritorno a pensionamenti anticipati. Un approccio contrastato “dall’Europa e dai mercati”, si affannano a ricordare ogni giorno i grandi quotidiani. Gli stessi che però respingono come “attentato alla democrazia” l’ipotesi che un governo democraticamente in carica levi loro di bocca le agevolazioni fiscali, i redditi-sussidio e i prepensionamenti regolarmente concessi dai governi del passato.