I due voti caldi di ieri all’Europarlamento hanno registrato quasi lo stesso esito numerico: 438 sì alla mozione a favore della “direttiva copyright” (con 226 no e 39 astenuti); 448 sì alla mozione sulle sanzioni all’Ungheria presunta “illiberale” (con 197 no e 48 astensioni). Forse è una pura coincidenza, forse può essere invece utile cercarvi qualche correlazione significativa sul piano politico. E ciò al di là di ogni considerazione più cronistica: la mozione contro Budapest, ad esempio, è passata con un margine minimo rispetto ai due terzi richiesti, solo grazie alle assenze e allo scomputo delle astensioni. E non va dimenticato che nell’emiciclo di Strasburgo una forza come il Pd italiano pesa ancora per il 40% toccato nel 2014 e non per il 19% raccolto cinque mesi fa.



E’ visibile comunque una sovrapposizione più che numerica fra gli europarlamentari — uscenti — che vorrebbero mettere le briglie agli OTT (Over the top) della Silicon Valley e quelli che vorrebbero metterle alle politiche anti-immigrazione di Orbán. Ed è in fondo curioso che una stessa resistenza muova da Strasburgo verso est (contro il “sovranismo” politico dei paesi del gruppo di Visegrad) e verso ovest (contro il globalismo tecnologico di Oltre Atlantico). Contro gli steccati fisici che l’Ungheria pretende di alzare contro le fiumane di migranti; e contro la spinta potente all’abbattimento di ogni muro che giunge dalla California (che non è ancora chiaro se parli la lingua di Zuckerberg o quella di Trump). La stessa eurodeputata verde olandese Judith Sargentini si è trovata, nello stesso giorno, a seguire le tracce dell’autoritarismo cinese contro la Grande Rete e a celebrare l’ennesimo rito irriducibile dell’ideologia politically correct obamiana contro un paese dell’Europa reale, non virtuale: un’Ungheria passata in meno di trent’anni dalla sudditanza sovietica agli incerti sviluppi della cosiddetta “democrazia di mercato”, che nella vasta area balcanica ha sempre fatto fatica.



Le questioni reali restano due. Anzitutto l’Europa non ha né una propria Google, né una propria Facebook, né una propria Microsoft e né Amazon. Forse è tardi per pensarci e ci vorrebbe l’esatto contrario dell’Europa disunita del tardo 2018. Ma fino a quando pretenderà di difendersi — se non proprio di contrattaccare — asserragliandosi nel proprio Parlamento non cambierà nulla: al massimo continuerà a riceve qualche modesto “risarcimento danni”.  

La seconda questione riguarda il Parlamento europeo che si insedierà fra nove mesi e che sarà prevedibilmente molto diverso da quello che ieri ha visto la Mep Judith Sargentini esultare come a un raduno #Metoo. Ieri Manfred Weber, lo spitzenkandidat Ppe bavarese a nuovo capo dell’esecutivo Ue, ha votato a favore delle sanzioni all’Ungheria, ma una pattuglia di suoi deputati popolari (59, tedeschi e non) si è espressa contro. E un minuto dopo Weber ha twittato: “Il gruppo Ppe all’europarlamento vuole tenere l’Europa unita. Il dialogo deve cominciare, non finire nelle prossime settimane o mesi”. Ma prima di notte Weber ha fatto in tempo a postare un altro tweet: “I valori cristiani sono fondamentali del nostro continente. Ho incontrato oggi l’arcivescovo di Lussemburgo Hollerich, presidente della Commissione della conferenze episcopali della comunità europea”.