In questi giorni lontano dal clamore della stampa e dalle urgenze impellenti della quotidianità il governo ha presentato un piano a medio termine firmato dal ministro Paolo Savona per la riforma del debito pubblico italiano e della Ue. Non ci sono minacce di piani B per l’uscita dall’euro, né proclami di sfondamenti dei parametri di bilancio imposti da Bruxelles; poi è a medio termine e quindi pare che non sia una cosa importante, può andare a finire nel dimenticatoio.
Eppure, forse non è così. Questo potrebbe essere il punto in agenda più urgente del governo, per il semplice fatto che un piano a medio o lungo termine o si attiva ora, oppure comporterà ritardi strutturali che non sarà possibile mai più compensare. Ignorare questo piano insomma è un po’ come rinviare di un anno o forse due o tre l’inizio della prima elementare per un bambino, e fargliela cominciare non a sei, ma a sette, otto o nove anni, perché tanto finirà le scuole solo tra 13 anni. Ma il ritardo dell’inizio delle elementari in realtà è una tara che dura per la vita e condizionerà nel male tutta l’esistenza dell’uomo.
Ciò va al di là del merito della proposta di Savona. Savona propone di spalmare il debito pubblico in tempi lunghi e legarlo all’impegno dell’Italia di produrre crescita oltre una certa percentuale. Inoltre il ministro chiede anche una maggiore integrazione politica e fiscale europea da discutere in un tavolo opportuno della Ue.
Le proposte saranno giuste o sbagliate, ma il punto non sembra questo. Il punto è che si solleva una questione cruciale, accantonata da anni per le piccole ansie dell’istante, di riforma del debito italiano e della Ue. Su questo se non si comincia oggi, domani è già troppo tardi.
Dietro questo progetto ci sono poi questioni più urgenti ma comunque non immediate. In un convegno del Cnel dei giorni scorsi Sabino Cassese denunciava l’enorme difficoltà pratica e giuridica di riuscire a spendere i miliardi di fondi Ue per le infrastrutture in Italia, cento secondo Romano Prodi, ben 150 secondo Francesco Giavazzi. In sostanza, diceva Cassese, in Italia si è invertito l’onere della prova per quanto riguarda i lavori pubblici. Prima bisogna provare di essere innocenti e poi si può spendere, non il contrario come impone da sempre la giurisprudenza, che tutti siamo innocenti finché non provati colpevoli.
In altre parole le norme anti-corruzione, pur necessarie, sono diventate tali da tagliar fuori tutti gli imprenditori sani dagli appalti pubblici (perché devono perdere tanto tempo e sottoporsi a tali vessazioni?) per lasciarli nei fatti agli imprenditori magari più sospetti.
Inoltre secondo uno studio della Banca d’Italia i lavori pubblici costano in Italia cinque volte quelli francesi per risultato prodotto. Cioè cento euro in Italia danno 1 km di autostrada, in Francia ne danno 5. Questo è dovuto alla diversa orografia, difficoltà tecnica, eccetera. Ma, sempre secondo Banca d’Italia, quello che grava veramente non è la corruzione bensì i costi inutili della burocrazia. Tutti questi sono costi in più per il debito pubblico.
Detto in altro modo, la giusta lotta alla corruzione ha prodotto il paradosso di un maggiore debito pubblico e la follia che una corruzione impazzita, che facesse raddoppiare i costi degli appalti, sarebbe più economica di una burocrazia che i costi li fa lievitare di cinque volte!