Il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, aveva fatto un discorso esemplare a proposito dell’insediamento del nuovo Consiglio superiore della magistratura e in attesa della nomina del vicepresidente che, di fatto, essendo Mattarella il presidente, dirige normalmente i lavori e le grandi scelte di fondo. 



Aveva specificato Mattarella: “I componenti laici, secondo quanto prevede lo stesso articolo 104 della Costituzione, sono eletti non perché rappresentanti di singoli gruppi politici (di maggioranza o di opposizione) bensì perché, dotati di specifiche particolari professionalità, il Parlamento ha affidato loro il compito di conferire al collegio un contributo che ne integri la sensibilità”.



Persino uno dei quotidiani più attenti e apprensivi nelle vicende interne alla magistratura, che aveva sino al 25 settembre il timore di manovre poco chiare della correnti di “destra” dei cosiddetti membri togati, cioè i magistrati, in questo caso di Magistratura indipendente e di Unicost, si era tranquillizzato di fronte alle parole del Capo dello Stato e concludeva con un commento tranquillizzante: “Adesso, però, le parole di Mattarella sembrano indicare al plenum un’indicazione precisa: eleggere un tecnico e non un politico”. 

Invece, tanto per cambiare, la stampa italiana non riuscirebbe ormai neppure a prevedere un temporale e il paventato rischio di una nomina di David Ermini è diventato realtà. Ermini è un avvocato penalista, che probabilmente ricalcherà le orme di Francesco Carnelutti e Giacomo Delitala, grandi giuristi un po’ snob, che non “amavano” (eufemismo) le correnti nella magistratura, ma tecnico è una veste che gli sta un po’ stretta. David Ermini è infatti stato rieletto deputato del Partito democratico e si è sempre distinto per essere più renziano dello stesso Matteo Renzi. Un protagonista rumoroso e appassionato della lotta politica all’interno del Parlamento e del suo stesso partito che non attraversa momenti felici. Chissà se parteciperà alla manifestazione di domenica prossima del Pd, anche se ha annunciato, a quanto sembra, la sospensione dal partito e dal Parlamento (ha dato le dimissioni a luglio, ma ieri era formalmente in carica: anomalie burocratiche italiane).



In tutti i casi, Ermini stabilisce un primato nella storia del Csm, quello di un vicepresidente tutto politico che appartiene anche al partito di minoranza, che non sta al governo. E’ un mistero eleusino, come dicevano gli antichi greci, che però svela qualche cosa che si sta muovendo nella viscere, piuttosto malandate, di questa “terza repubblica” suddivisa in feudi l’un contro l’altro armato.

Attenzione al quadro complessivo riassunto brevemente. Si è appena conclusa la telenovela delle telenovele, cioè la nomina contrastata del presidente della Rai, con Marcello Foa a un passo dalla notorietà  giornalistica nella storia italiana di Barzini, Malaparte e Montanelli. Vittoria governativa! Si è appena conclusa la rissa sui decimali della finanziaria o del documento di economia e finanza che fa incavolare l’Europa, che scomoda Francia e Bruxelles, che fa innalzare lo scontro fino ai “giuramenti” solenni del ministro dell’Economia, Giovanni Tria, e alle accuse di “assassinio politico” fatte dal vicepremier Luigi Di Maio a Matteo Renzi per aver pensato e varato il Jobs act. Partita incerta e vittoria problematica per tutti. E ora è scoppiato il putiferio sulla nomina di Ermini, imprevista, che ha mandato fuori dai gangheri un magistrato “integerrimo” e leggermente sopra le righe come Piercamillo Davigo, ex presidente dell’Anm e leader della nuova corrente da lui fondata “Autonomia e indipendenza”.

Davigo attacca a testa bassa: “La strettissima maggioranza con cui è stato eletto l’avvocato Ermini ha diviso in due il Csm a causa della diretta provenienza del nuovo vicepresidente dalla politica, unico tra tutti i laici eletti in Parlamento”. Davigo non si ferma: “Questa è una scelta che da la sensazione che il Csm sia il contrappeso del governo”. Aggiunge anche che la scelta è legata a una parte: di un ampio e trasversale schieramento politico, si intende.

Accuse gravissime che vengono riprese in altro modo da Luigi Di Maio: “Dove è l’indipendenza della toghe? Vuol dire che la cinghia di trasmissione si è invertita?”. In più: “Il sistema è vivo e lotta contro di noi”. Alla faccia del rispetto della giustizia italiana e della magistratura.

La polemica è violentissima e incredibile, dato che solo alcuni giorni fa Di Maio invitava Matteo Salvini a non “attaccare la magistratura”, dopo l’avviso di garanzia che era arrivato al ministro dell’Interno per la vicenda della nave Diciotti. E’ vero che viviamo in un’epoca di parole al vento e di coerenza piuttosto problematica, ma c’è un limite a tutto. Persino il ministro della Giustizia, il garbato grillino Alfonso Bonafede, allibito, dice: una parte delle toghe si è messa a far politica.

Tutto sommato quella di Bonafede è una scoperta dell’acqua calda, ma lascia spazio ad alcune riflessioni. Lo scontro all’interno del Csm riguarda probabilmente alcuni casi, come quello delle intercettazioni telefoniche, il perenne “caso Woodcock”, ma non si inquadra in un vero dibattito sulla riforma della giustizia, non si citano Montesquieu, Tocqueville, magari Calamandrei o Falcone. Assomiglia piuttosto a una rissa tra correnti interne e riferimenti politici esterni, in nome della gestione e del possibile potere di interdizione del Csm.

Per Davigo e la stampa che lo spalleggia, ad esempio, uno dei protagonisti negativi della vicenda è il leader di Magistratura indipendente, Cosimo Ferri, un playmaker del collegamento tra politica e giustizia, un funambolo delle alleanze trasversali: magistrato, ora sta nel Pd, però ha buoni rapporti con le correnti di destra e forse anche con Berlusconi, ripensando al suo passato. 

Non sembra proprio un innovatore, Ferri, nella magistratura e nella giustizia italiana. Una sua intervista riporta un’avversione “salazariana”, si potrebbe dire, contro la separazione delle carriere, tra giudice e pm, quindi in aperto contrasto con la Corte dei diritti europei che, dal luglio 1997, raccomanda all’Italia di evitare quello che Montesquieu chiamava un abuso, cioè che il giudice faccia lo steso mestiere del pubblico ministero e quindi si produca questo processo che è una sorta di ircocervo inquisitorio e accusatorio mescolato malamente insieme.

Ma di fronte alla realtà politica di questi mesi, almeno fino alle prossime scadenze elettorali in Germania, negli Stati Uniti e poi in Europa, una grande e necessaria riforma della giustizia si ridurrebbe a un dibattito di “quisquilie e pinzillacchere”, direbbe il grande Totò. Il problema attuale è quello di occupare posizioni in previsione degli eventi futuri. Occupare appunto feudi e fare una sorta di contrapposizione di poteri anarchici, senza alcun vero senso dello Stato.

A noi la Rai, agli altri il Csm; e Tria chi lo difende e a chi deve rispondere? La tesi propagandata è sempre quella di rassicurare i mercati e non isolarsi. Sarà pure una strategia di sopravvivenza, ma la sensazione è che il paese e la stessa Europa siano sempre più divisi.

Vedendo come Matteo Renzi ha difeso la nomina di David Ermini si potrebbe dire che c’è proprio un asse trasversale, che si contrappone dialetticamente (eufemismo) a questo governo giallo-verde. Si vede la mano del Pd, ovviamente, alcuni errori marchiani della maggioranza, forse qualche manovrina berlusconiana, qualche “grillino” dissidente e forse (perché no?) l’accompagnamento paterno del Quirinale. Strano quello che scrive il “quotidiano dei magistrati”. Qualcuno si pone la domanda se sia vero che il voto ha disatteso le indicazioni di Mattarella. Forse qualcuno ha capito male le parole del capo dello Stato?