Caro direttore,
la questione dei migranti è ormai diventata per questo governo, per iniziativa del vicepremier e ministro dell’Interno Salvini, con l’acquiescenza sostanziale dei 5 Stelle, al netto di qualche insofferenza finora senza efficacia in M5s, un terreno di prova generale per mettere in crisi l’ordinamento costituzionale e l’equilibrio dei poteri — parlamento, esecutivo, magistratura — su cui si regge la democrazia italiana. Facendosi scudo — aizzandole — di paure sociali che hanno cause ben più fondate (una crisi sociale ed economica che avrebbe bisogno di politiche adeguate, e non di diversivi di massa nell’individuazione del “nemico” esterno, dai migranti all’Europa, la cui necessità i padri fondatori individuarono proprio come argine ai sovranismi nazionali che avevano portato a due guerre mondiali), sui migranti si sta facendo strame del diritto e della Costituzione, in una logica da apprendisti stregoni che rischia di far saltare gli argini della tenuta democratica del nostro Paese.
È per questo che con l’amico costituzionalista Alberto Lucarelli abbiamo proposto un appello ai costituzionalisti italiani a prendere posizione su questo passaggio delicatissimo della vita del Paese, e a sostenere le istituzioni repubblicane nella fermezza necessaria in questo momento. Perché non si ha memoria nella storia repubblicana di conflitti tra poteri dello Stato esibiti alla luce del sole, da esponenti del governo, come forcipe per far nascere una forma di governo che punta a eludere le forme e i limiti previsti dalla Costituzione all’esercizio della sovranità popolare espressasi nelle urne.
Qui ormai è in gioco non un legittimo cambiamento dell’indirizzo di governo, ma il sovvertimento ora surrettizio ora conclamato degli equilibri costituzionali e della forma di governo che ne discende. Sta prevalendo l’idea che il consenso di una tornata elettorale, sbrigata la “formalità” dell’investitura parlamentare nel voto di fiducia, reperto magari da mandare a mare nella nuova repubblica che si vuol far nascere — di qui il continuo refrain sull’inutilità del parlamento, non per ridargli ruolo e vitalità, ma per toglierli quel che gliene è rimasto —, abiliti politicamente il governo ad esercitare la sovranità popolare cui deve il suo mandato a prescindere dallo scrupolo sui limiti costituzionali delle sue prerogative nell’esercizio della sovranità ad esso pro tempore delegata. E in qualche “gesta” ministeriale, che si è potuto osservare, questo con una sguaiatezza nei toni che non si capisce bene se deve alleviare le preoccupazioni alla Flaiano, perché la situazione politica in Italia è grave, ma non è seria, e “cercate di capirmi sto facendo una campagna elettorale per le europee, governare davvero è quisquilia senza interesse in questo momento”; o se deve aggravarle al pensiero di cosa può costare questa campagna elettorale permanente al Paese, con l’obbligato inseguimento elettorale dei 5 Stelle.
Quello che è evidente è che si sta sdoganando l’idea che vincoli e obblighi costituzionali, giuridici e di diritto internazionale sono nella disponibilità dei dictat del governo. Sta saltando la censura, e la cultura, delle regole, anche per cambiare, com’è certamente legittimo, questa o quella norma di diritto o di impegni internazionali, questa o quella previsione costituzionale. Avanza una pericolosa cultura del “chi se ne frega”, esibita senza pudore per comunicare “decisionismo” politico da vendere al Paese.
E che questo atteggiamento sia esibito da un ministro dell’Interno è particolarmente grave, perché quello dell’Interno, come quello della Giustizia, sono ruoli certamente appannaggio dei partiti chiamati al governo, ma non possono essere interpretati senza restare, nella quotidianità del loro esercizio, presidi di garanzia per tutti i cittadini e per tutte le forze politiche, a pena di mettere a repentaglio il patto costituzionale.
Un’ultima notazione, sull’episodio che ci ha spinto a proporre un appello al rispetto della Costituzione, stando magari un millimetro dentro i suoi limiti e non un millimetro fuori, almeno fin quando sarà quella vigente; e cioè l’episodio della nave Diciotti, con 147 disperati provenienti dalla Libia. Sono convinto che l’iniziativa del procuratore Patronaggio, quale che ne sia l’esito in giudizio, era ed è ampiamente motivata. Starà al ministro dimostrare la correttezza del suo operato, magari non invocando come giudice di ultima istanza i sondaggi. Gli potrebbe persino bastare qualche elusione — in base a questa o quella prerogativa di privilegio dei ministri rispetto ai “comuni” cittadini così cari all’avvocatura degli italiani che questo governo dice di voler interpretare — dei tribunali dello Stato. Il punto è un altro, e va oltre la correttezza istituzionale degli atti del ministro, che saranno i giudici a stabilire; e oltre la legittimità del contenzioso con l’Europa sulla gestione dei flussi migratori nel Mediterraneo che è nella titolarità del governo. Ed è un punto di pietà.
Di fronte alle immagini che abbiamo potuto vedere delle torture nei campi libici, che hanno spinto il Papa a condividere l’oscenità della ferocia che ha voluto guardare, qualsiasi contenzioso politico e gestionale, qualsiasi determinazione nell’atteggiamento da tenere in Europa e con l’Europa sulla questione avrebbe dovuto cedere il passo, riposto nel cassetto per un sussulto di pietà, senza di cui prima ancora che politica degna di questo nome non c’è l’uomo. Creda il ministro — e credano i tanti con lui che ne condividono l’intransigenza, come quei figuri che si sono recati a protestare a Rocca di Papa contro un ordine per altro del ministro della “sicurezza degli Italiani” in cui si riconoscono — che basterebbe patire sulla propria carne, o sulla carne di un proprio caro, non tre giorni o tre ore, ma tre minuti di quello che hanno patito alcuni di questi disperati, per vedere in un attimo le cose dal lato di chi sale sulla croce; e per cambiare idea in tre nanosecondi su come accoglierli.