“La politica è sangue e merda”, diceva senza troppi giri di parole Rino Formica, intellettuale disorganico del Psi di Craxi. E certamente il motto si attaglia alla perfezione al mefitico clima di fuoco amico e arsenico che si respira in quel che resta della casa Pd attorno all’unica autocandidatura minimamente credibile fin qui profilatasi, quella di Nicola Zingaretti, a nuovo segretario. E mentre Matteo Renzi, mentendo come sempre, dice di volersi chiamare fuori ma fa capire che non intende votare Zingaretti, il governatore del Lazio (“io, che ho battuto due volte i Cinquestelle”, rivendica) s’interroga, a proposito dei milioni di ex-elettori Pd passati a Grillo: “Voglio capire perché ci hanno abbandonato!”. E grida al microfono, e fa un bell’effettone, non c’è che dire.
Sfumato il quale, però, c’è da chiedersi su quale pianeta Zingaretti abbia vissuto per lo meno negli ultimi vent’anni abbondanti, cioè dal quel 1996 in poi, anno del primo governo a guida piddina. E dunque, al netto dei veleni e di quell’altro materiale evocato da Formica (che, palesemente, sta insozzando anche il dibattito politico dentro il Pd), forse qualche considerazione dai margini, da parte dei tanti italiani che hanno sempre votato prima Pci, poi Pds, poi Ds, poi Pd senza averne mai preso la tessera si può timidamente offrire, al candidato.
Semplicemente, il partito che fu di Togliatti non ha retto, dal ’96 in poi, alla contaminazione con il potere. Semplicemente, ha dimenticato di essere il partito degli ultimi, dei cittadini collocati oggettivamente in coda alla processione sociale, ed è diventato il partito dei progressisti già progrediti, anzi — meglio — degli intellettuali progressisti, che in quella coda non c’erano mai stati.
Al tramonto della classe operaia di Cipputi e delle tute blu, il partito di Occhetto e di D’Alema prima e poi di Bersani e tantomeno di Renzi, passando per Franceschini e Veltroni, non s’è accorto che stava disancorandosi dalla sua stessa ragion d’essere, rappresentata da quelle fasce sociali che volevano migliorare perché erano discriminate. Non più tecnicamente proletarie, non più professionalmente operaie, ma comunque “ultime”: e, soprattutto, tenute ad oggettiva, debita distanza da quell’ascensore sociale che in Italia ha sempre funzionato male.
Il Partito comunista italiano — ricordiamocelo, ogni tanto — che nel 1991 divenne Partito democratico della sinistra, nel 1998 confluì nei Democratici di sinistra, e quindi nel 2007 si fuse con La Margherita e le altre forze (forzine) di centro-sinistra nel Partito democratico, ha cambiato più pelli di un pitone. E non ricorda più quale sia la sua, quella vera.
Da allora in poi, l’infelice e breve tentativo del secondo governo Prodi (2006-2008), morto ancora per il fuoco amico di Rifondazione; e poi l’ultimo governo Berlusconi (2008-2011) imploso da solo, crollato miseramente sotto i colpi dello spread e, ancor prima, delle prostitute che, affollando la casa e il “lettone” del premier sessuomane, ne avevano ridicolizzato i già pericolosi afflati filo-putiniani che di per sé, agli occhi dei veri burattinai americani, sarebbero bastati a mettere fuori gioco anche un asceta.
Nel 1996 il Pds, finalmente per la prima volta forza di maggioranza nella coalizione dell’Ulivo, guidata dal candidato premier Romano Prodi, vince le elezioni e va al governo. E arrivato nella stanza dei bottoni li trova — non come Pietro Nenni che, disse, “entrato nella stanza dei bottoni, non trovai nessuno bottone”; li trova, e vede che sono d’oro. Inizia a dare il peggio di sé. Aderisce acriticamente agli input che da Bruxelles arrivano sulle scrivanie ministeriali romane come condizioni per l’ammissione dell’Italia e della sua “liretta” all’alta accademia dell’euro, condizioni gradevoli come quelle di un riformatorio, ma proprio per questo considerate, in fondo, l’unica purga possibile per un popolo di anarcoidi furbastri quali tutti quelli di sinistra, pur condividendone i vizi, hanno sempre considerato tutti gli altri.
Largo dunque ad un’Europa-olio-di-ricino, assai simile a quel “carcere per debiti”, come Varufakis ha definito oggi la Grecia post-troika. Un’Europa che, come diceva sempre Carlo Azeglio Ciampi, rappresentava per l’Italia il chiodo che lo scalatore pianta nella parete della montagna ben al di sopra della sua testa per potervisi issare, sorvolando sul piccolo dettaglio che, nei fatti, quel chiodo è stato piantato dai tedeschi nella carne e nel sangue dei popoli del Sud Europa. E questo è un fatto. Per cui mentre oggi la nostra disoccupazione giovanile media supera il 30%, in Germania si fanno i contratti integrativi offrendo agli operai una scelta di lusso tra più soldi o meno ore lavorate, che è poi la soluzione per salvare il lavoro umano dai robot.
Al governo con D’Alema premier, dal 21 ottobre 1998 al 25 aprile 2000, l’Italia ha conosciuto il piddismo reale, un impasto di laburismo alla Blair e opportunismo alla Peppone, o meglio all’Alberto Sordi. A Palazzo Chigi, nell'”unica merchant bank dove non si parla inglese” — secondo la definitiva battuta di Guido Rossi — Baffino impartisce ordini dal taglio e dalla filosofia capitalistica, incontra e tratta con Cuccia, si atteggia a stregone della finanza e porta acqua al mulino, se non altro, di un suo gruppo dirigente (i “Lotar”) accomunato dai pochi capelli e dalle grisaglie impeccabili che alla storia passa per le privatizzazioni, forse non pilotate ma di fatto orientate tutte verso poche mani amiche, per esempio quelle dei Benetton, per culminare nella “madre di tutte le privatizzazioni”, Telecom, finita ai “capitani coraggiosi” di Roberto Colaninno e quindi sventrata dei suoi soldi e ridotta a una mezza larva da colosso mondiale qual era.
Cosa c’entrava tutto questo con i diritti degli ultimi a costruire la propria promozione sociale? E la modernizzazione del Paese all’insegna della sua finanziarizzazione? Era forse quel che Giuseppe Di Vittorio aveva prefigurato per i suoi braccianti, oggi extracomunitari alla mercé dei caporali? O per i metalmeccanici di Mimì metallurgico, oggi come ieri pagati poco e usurati molto?
Certo, i sogni — o gli incubi — di un cambio di sistema che mutuasse schemi sovietici cancellati dalla storia erano definitivamente archiviati, ma non, con essi, le ingiustizie sociali e la negazione delle pari opportunità, che avrebbero dovuto (e dovrebbero) essere ciò che la sinistra garantisce, più di ogni altra cosa.
Il goffo inseguimento italiano delle pratiche del capitalismo finanziario internazionale — per esempio quelle sulle regole del lavoro — ha sistematicamente fatto le pentole senza fare anche i coperchi, smantellato le vecchie garanzie, come lo Statuto dei lavoratori e la non-licenziabilità dell’individuo, senza creare al loro posto le nuove garanzie “di fatto” che alleviano, nei paesi davvero evoluti, la vulnerabilità del reddito dei lavoratori dipendenti: prima fra tutte la velocità del turn-over e l’abbondanza dell’offerta di lavoro.
Il partito degli ultimi — che hanno il difetto di esistere sempre (siamo tutti, sempre, gli ultimi di qualcun altro) — era diventato il partito fighetto della sinistra benpensante e megliovivente, ignara del fatto che per esempio la sicurezza sociale è un bene assai più caro per chi non ha di che ricomprarsi l’utilitaria che gli rubano o di che pagare lo psicanalista al figlio che si droga.
Il Renzi che sfila tronfio all’ombra di quello stesso Marchionne resosi gestore e garante di una famiglia Agnelli che ha portato all’estero i suoi versamenti fiscali, è il “coroner”, il medico legale, che completa l’assassinio del vecchio partito leader della sinistra. Ed oggi sentire Guglielmo Epifani, un professore prestato alla Cgil, indignarsi per l’obbliguccio imposto dai 5 Stelle alle imprese di indicare la “causale” dei contratti a termine fa lo stesso effetto del sentire Fedez gridare contro i tatuaggi.
Calenda ministro para-piddino delle Attività produttive è la prova plastica di questa specie di mostruosa metamorfosi del Pd da partito dei lavoratori in partito dei datori di lavoro.
Non che questi ultimi non siano benemeriti, lo sono perché creano ricchezza, ma nella misura in cui la creano anche per la società e per il sistema e non soltanto per cinque metri di barca in più, per una villa in più, per un figlio inadeguato in più da insediare ai comandi e da lanciare inconsapevole a guidare l’azienda sugli scogli.
I precari si vedono dipingere con surreale protervia come una categoria di privilegiati perché cambiando spesso lavoro “non s’annoiano” (copyright, Mario Monti), ma quando vanno in banca a chiedere un mutuicino per la casa della figlia si vedono rispondere picche perché non c’è certezza di durata, in quelle loro buste paga a orologeria.
E la magistratura di sinistra, cioè il 90 per cento della magistratura (copyright Berlusconi, cioè Dracula che critica l’Avis, ma in questo caso con ragione), sempre pronta a indignarsi sulle intercettazioni e sulle custodie cautelari, non fa una piega quando il Jobs act l’espropria della giurisdizione sulle cause di lavoro per i licenziamenti individuali, perché quella sfera d’azione non determina più notorietà, né gloria. Sono finiti i tempi in cui il pretore Romano Canosa reintegrava per undici volte i cinque demoproletari di Arese licenziati dieci volte dalla Fiat e diventava per questo una star: nell’aria salubre dei tempi nuovi una toga così fa ridere, e volentieri le altre lasciano il ridicolo al passato.
Quale classe sociale, allora, dovrebbe — o avrebbe dovuto — votare Pd? Quella dei professori universitari illuminati e riscaldati dalle loro consulenze e dal calduccio del loro potere accademico, forse, ma non certo quella dei rider dei food-delivery, né dell’esercito delle partite Iva individuali, che accettano la sfida dell’autoimprenditorialità (non c’è pane, mangiate brioches) ma la perdono, finendo nella marea grigiastra della marginalità. E dunque, Zingaretti: come non vedere le ragioni dell’abbandono?
In verità, sarebbe molto più facile vedere le strade del recupero. Ma cominciando col riconoscere i propri errori, ed estromettere chi ne ha commessi di più.