Con un lungo articolo Sergio Luciano liquida vent’anni della sinistra e del centro-sinistra italiano. Non che nella sua analisi non vi siano molti spunti interessanti e valutazioni condivisibili, tuttavia la complessità della storia italiana di questo ventennio è sicuramente maggiore della sua semplicistica e parziale rappresentazione.
L’origine della trasformazione dei due partiti che poi daranno vita al Pd, il Partito comunista e la Democrazia cristiana, avvenne nello stesso tempo e per ragioni diversissime. La Dc fu travolta da Tangentopoli, il Pci dal crollo del muro di Berlino. La trasformazione del Pci, per quanto complessa e interminabile, germinò una forza politica che riuscì ad essere centrale nello schieramento politico italiano, pur con alterne fortune e vicende. La trasformazione della Dc, invece, diede vita ad un partito orgoglioso del proprio cattolicesimo democratico, ma striminzito nei numeri e più marginale nello scacchiere politico.
Sergio Luciano cita numerosi esempi di abbandono della propria identità operaia ed egualitaria da parte dei partiti eredi del Pci, e non ha torto. Solo che in quegli anni la corrente politica volgeva inesorabilmente a destra, verso i lidi del liberismo economico più sfrenato, i miti della deregolamentazione, la chimera della competizione, le sirene della fine del lavoro. In quegli anni il massimo della sinistra possibile sembravano Blair e Clinton e citare Keynes sembrava come citare Lenin. I capi della sinistra furono deboli politicamente e ideologicamente? Sì. Sono d’accordo con Sergio Luciano. Pensarono che per governare bisognava fare una lunga marcia verso il centro, essere accolti nei salotti degli imprenditori, avere l’endorsement del presidente di Confindustria e indebolire il sindacato. Intendiamoci: i governi Prodi sono stati di gran lunga migliori e più efficaci dei governi Berlusconi, anche sul versante sociale. Tuttavia la vera distanza tra l’Ulivo e il centro-sinistra e Berlusconi non è stata sul versante sociale, ma sull’egemonia culturale. E su questo terreno l’assenza di radicalità da parte della sinistra ha perso contro la radicalità iperliberista di Berlusconi.
Per vent’anni D’Alema, Bersani e il loro “maître à penser” ci hanno spiegato che dovevamo privatizzare, liberalizzare, deregolamentare, lasciare mano libera (novelli ammiratori di Adam Smith) in cambio della patente di modernità e del lasciapassare al governo che ci avrebbero concesso i salotti buoni e i poteri forti. Ecco perché il loro ritorno a sinistra è sembrato solo una ripicca contro Renzi, reo di averli sconfitti ed emarginati, piuttosto che l’esigenza di ridare fiato ad una moderna radicalità neosocialista.
Poi è arrivato Matteo Renzi. E’ arrivato un volto nuovo, fresco, giovane. La sua parola d’ordine, rottamare il vecchio, risuonava strana per un partito con pochi anni di vita, nato dalla fusione di due partiti a loro volta giovani e sottoposti a tanti cambiamenti. Renzi ha vinto operando una rottura d’immagine, portando una ventata d’ottimismo, un gruppo dirigente nazionale giovane, composto di volti e nomi nuovi. La sua linea politica, però, era una prosecuzione spinta del dalemismo, i suoi metodi interni (fortemente verticistici, qualcosa di simile allo stalinismo) erano molto simili a quelli del suo odiosissimo nemico interno, perfino gli atteggiamenti spavaldi e spocchiosi erano in linea. La mia personalissima opinione è che Matteo Renzi è stato l’unico allievo ed emulo di D’Alema, dal quale ha mutuato stile, opinioni, errori e sarcasmo.
Ora Sergio Luciano potrebbe chiedere, come già ha fatto nella sua lunga analisi, perché abbiamo seguito questi leader. La risposta è al contempo semplice e complessa: perché il tratto caratteristico del militante di sinistra è che ama i suoi leader, li sostiene, li coccola, li protegge, li giustifica. Fino alla fine. Poi, però, arriva la fine. E come è arrivata la fine del dalemismo, ora è arrivata la fine del renzismo.
E’ arrivata sotto i colpi dell’avanzata grillina, del trionfo della paura alimentata dal leghismo, dell’incapacità di rendersi conto che c’è una distanza abissale tra gli indicatori economici e la vita reale. A sconfiggere Renzi sono stati la sua supponenza e le fake news della Rete, la paura del diverso e il terrore della povertà e della miseria, la perdita di potere d’acquisto di molti e il benessere ostentato di pochi. E anche l’avversione oramai diffusa verso un’Europa ingiusta.
Renzi per allontanare l’amaro calice se la prende con la sobrietà di Gentiloni, ma la fuga degli elettori è avvenuta da lui, non da Gentiloni.
E allora ecco l’antico quesito tanto caro agli intellettuali comunisti: che fare?
Riportare la chiesa al centro del villaggio, dice un vecchio proverbio francese. Fare il proprio mestiere, quello per cui esiste la sinistra: battersi per garantite più uguaglianza sciale, difendere i più deboli.
Non è impresa facile. Sono deboli i disoccupati italiani e gli immigrati, sono deboli gli operai dell’Italsider e quelli che si ammalano di cancro perché c’è l’Italsider, sono deboli i lavoratori autonomi che pagano tasse senza ricevere servizi e i precari a vita.
E’ chiaro che occorre un nuovo pensiero di sinistra, radicale e moderno, non ipocrita.
Come definirei questa sinistra? Rigorosa e gentile. La candidatura di Nicola Zingaretti mi piace e mi convince. In primo luoghi per i tratti umani: sorride, parla di persone, non è spocchioso, non vuole fare il primo della classe. E’ un uomo che vince le elezioni e non ostenta la prosopopea del vincente infallibile (ché siamo tutti fallibili), disposto ad ascoltare, che ha l’età giusta e la tranquillità personale necessaria.
Poi per quello che dice: coniugare crescita ed equità (un richiamo indiretto a Keynes e alle teorie del benessere), ridurre la forbice dei salari e della ricchezza, rispondere al bisogno di sicurezza con apertura e solidarietà, e non con chiusura ed egoismo. Non rinunciare all’Europa, ma battersi per cambiarne la natura e le politiche, avvicinarla ai bisogni delle persone. Affrontare in maniera non retorica il tema del divario territoriale, investire su ricerca, innovazione e scuola anche per modernizzare digitalizzare il nostro sistema produttivo.
Per l’idea di partito: territorio e rete, partecipazione e passione civile. Un nuovo partito popolare, capace di vivere nelle pieghe e nelle contraddizioni del paese reale.
Riuscirà Nicola in questa impresa così difficile? Non lo so, ma mi piace crederlo e mi appassiono all’idea di dare una mano.