Alimentata a inizio anno dal sindaco di Palermo, Leoluca Orlando, in un duro botta e risposta con il ministro dell’Interno, Matteo Salvini, la protesta contro il decreto sicurezza (legge 132/2018), giudicato “inumano e criminogeno”, ha dapprima coinvolto alcuni sindaci, poi ha raccolto la contrapposizione di otto Regioni – pronte a fare ricorso presso la Consulta, anche se l’iter tecnico per la presentazione richiederà almeno 6 mesi – e alla fine ha diviso anche i giuristi. Il nodo del contendere è la concessione di residenza e relativi servizi sociali agli immigrati in possesso del permesso di soggiorno. Con l’articolo 13 al centro delle polemiche, Salvini ha abolito questa possibilità, esplicitando che il permesso di soggiorno “non costituisce titolo per l’iscrizione anagrafica”. Hanno ragione i sindaci a protestare e a minacciare la disobbedienza civile? Quali sono i possibili profili di anticostituzionalità della norma? E oltre all’articolo 13, ci sono altri punti del decreto che suscitano dubbi? Lo abbiamo chiesto a Giovanna Pizzanelli, professoressa associata di Diritto amministrativo nel Dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa.
Alcuni sindaci chiedono di non applicare l’articolo 13 del “decreto sicurezza”, definendolo “disumano”, perché mette sulla strada migliaia di persone che potrebbero diventare facile preda dello sfruttamento e della criminalità organizzata, aumentando l’insicurezza. Cosa non sta funzionando? Ed è concreto il pericolo segnalato dai sindaci?
In generale, la nostra disciplina preposta alla regolazione dei fenomeni migratori rinuncia a una visione di più ampio respiro. Nello specifico, la questione è riconducibile al paradigma sicurezza-immigrazione che domina le politiche del nostro Paese da almeno un decennio. Sono emblematici il ricorso alla decretazione d’urgenza per la regolazione di un fenomeno che potremmo dire strutturale e l’intitolazione dello stesso decreto, che unisce l’ambito della protezione internazionale e dell’immigrazione alla pubblica sicurezza. Non diversamente, ad esempio, era andata per il decreto Minniti-Orlando. Il fenomeno, con sfumature diverse, negli ultimi decenni si ritrova nella gran parte delle democrazie stabilizzate e si spiega in un legame percepito come inscindibile tra immigrazione e rischio per la pubblica sicurezza.
Il decreto sicurezza rischia di dare un duro colpo alle politiche di integrazione?
In parte sì. Il sistema Sprar (Sistema protezione richiedenti asilo e rifugiati) – con i suoi limiti legati in primis all’adesione volontaria degli enti locali – è stato ridimensionato, la protezione umanitaria è stata circoscritta e il percorso per arrivare alla cittadinanza, che rappresenta il punto di arrivo in un sistema efficace di integrazione, ha subìto ostacoli. Ne deriva una diminuzione delle garanzie sul piano procedurale e processuale e una riduzione nell’accesso ai servizi e alle prestazioni sociali per lo straniero. Tuttavia, tali servizi, come noto, hanno un costo e sono fortemente condizionati dalla crisi delle finanze pubbliche. Ancora una volta, il nostro ordinamento ha privilegiato le politiche dell’immigrazione a scapito delle politiche per l’immigrazione.
La parte contestata dal decreto rispetta i trattati internazionali sottoscritti dall’Italia in materia di protezione dei diritti delle persone?
Prima di tutto è manchevole rispetto al diritto dell’Unione Europea, posto che proprio il dispositivo contenuto nell’articolo 13 del decreto sicurezza modifica una normativa interna del 2015 attuativa di una direttiva europea del 2013 relativa all’accoglienza. In questi casi il giudice può disapplicare una norma in contrasto con il diritto Ue o comunque rinviare la questione alla Corte costituzionale perché ne vagli la costituzionalità. In sostanza, si tratta di mettere a rischio il rispetto nei confronti dell’ordinamento sovranazionale verso il quale abbiamo precisi obblighi costituzionalmente previsti, del pari agli obblighi derivanti dal diritto internazionale. La nostra Costituzione, infatti, prevede che “la condizione giuridica dello straniero è regolata dalla legge in conformità delle norme e dei trattati internazionali”.
Alcune Regioni, confermando il pieno sostegno alla protesta dei sindaci, sono pronte a fare ricorso alla Consulta. In quali aspetti l’articolo 13 viola la Costituzione?
L’articolo 13 del decreto sicurezza prevede che coloro che hanno un permesso di soggiorno in virtù della richiesta di protezione internazionale non possono essere iscritti all’anagrafe comunale e comporta inevitabili ricadute sull’accesso alle varie forme di protezione sociale in gran parte erogate dalle Regioni e dagli enti locali sulla base di normative emanate dalle stesse Regioni. Si potrebbe prospettare una violazione delle competenze regionali in materia di servizi sociali. In proposito il nostro sistema di giustizia costituzionale consente alle Regioni di ricorrere direttamente alla Corte costituzionale entro 60 giorni dalla pubblicazione della legge statale qualora ritenga quest’ultima invasiva delle competenze proprie della Regione o degli enti locali presenti nel territorio regionale. Vero è che le materie “immigrazione”, “diritto di asilo e condizione giuridica dei cittadini di Stati non appartenenti all’Unione Europea”, “ordine pubblico e sicurezza” e “cittadinanza, stato civile e anagrafi” sono riconducibili alla competenza esclusiva dello Stato, e che il giudice delle leggi ha ritenuto la disciplina dell’immigrazione “un profilo essenziale della sovranità dello Stato”, ma è altrettanto pacifica la competenza regionale in materie come, ad esempio, la tutela della salute, l’assistenza sociale, l’istruzione, da realizzare anche attraverso un attivo coinvolgimento degli enti locali. Si tratta di un sistema integrato di interventi e servizi sociali che, nel nostro ordinamento, ha carattere di universalità e i cui parametri per la valutazione delle condizioni di accesso sono definiti dai Comuni, che sono anche responsabili dell’erogazione dei servizi nei confronti dei cittadini iscritti all’anagrafe.
I sindaci fanno disobbedienza civile? E rifiutandosi di ottemperare alle disposizioni della legge traducendo in ordinanze scritte la loro protesta rischiano la denuncia per abuso d’ufficio?
I sindaci in questo caso possono dare impulso a giudizi attraverso i quali potranno essere sollevate questioni di costituzionalità davanti al giudice delle leggi. Qualora adottassero ordinanze di protesta rischierebbero una denuncia per abuso d’ufficio, ma anche in questo caso il giudice potrebbe decidere di ricorrere alla Corte costituzionale, che sarebbe chiamata a giudicare sulla costituzionalità della recente normativa. Come stiamo vedendo in queste ore, anche alcuni presidenti di Regioni stanno promuovendo delibere finalizzate a presentare ricorso alla Corte costituzionale, perché ritengono alcune disposizioni del decreto sicurezza lesive della loro sfera di competenza. La questione inevitabilmente si connota per i colori politici e le forze di governo non hanno mancato di sottolinearlo. Niente di nuovo, si era già verificato, ad esempio, in occasione della riforma Madia: anche in quel caso il ricorso contro la legge delega sulla riforma della pubblica amministrazione era stato presentato da una Regione guidata da una forza politica di opposizione rispetto all’indirizzo politico del governo di allora.
Secondo Sabino Cassese, intervistato dal Mattino, il decreto non modifica esplicitamente la legge del 1998, che consente agli stranieri di essere iscritti all’anagrafe grazie al permesso di soggiorno. Questo che cosa potrebbe comportare?
L’articolo 13 del decreto sicurezza prevede l’esclusione dei richiedenti asilo dall’anagrafe dei residenti, nonché il divieto per gli stranieri inclusi nella rete Sprar di eleggere domicilio nel Comune in cui sono stati inseriti. Di conseguenza, il permesso di soggiorno provvisorio rilasciato permette a costoro di essere identificati e di poter regolarmente soggiornare nel nostro territorio, ma non di potersi registrare all’anagrafe. Tuttavia la norma non abroga espressamente la disposizione del testo unico in materia di immigrazione (Dlgs 286/1998, articolo 6, comma 7), secondo cui “le iscrizioni e variazioni anagrafiche dello straniero regolarmente soggiornante sono effettuate alle medesime condizioni dei cittadini italiani con le modalità previste dal regolamento di attuazione”. Ne potrebbe derivare un contesto assai diversificato nel Paese riguardo all’applicazione della normativa statale. Peraltro, se come previsto dal testo unico in materia di immigrazione, “lo straniero regolarmente soggiornante nel territorio dello Stato gode dei diritti in materia civile attribuiti al cittadino italiano, salvo che le convenzioni internazionali in vigore per l’Italia e il presente testo unico dispongano diversamente” (articolo 2, comma 2), una volta che il diritto a soggiornare non sia in discussione, lo ha già affermato la Corte costituzionale nel 2008, non si possono discriminare gli stranieri, stabilendo, nei loro confronti, particolari limitazioni per il godimento dei diritti fondamentali della persona riconosciuti invece ai cittadini.
L’Asgi (Associazione studi giuridici sull’immigrazione) ha annunciato che ben presto arriveranno i ricorsi, nei tribunali di Milano e Bologna, anche da parte di richiedenti asilo che si sono visti negare la residenza anagrafica. Anche in questo caso l’obiettivo è “portare davanti alla magistratura la questione con richiesta di rinvio alla Corte costituzionale”.
Nel nostro sistema spetta alla Corte costituzionale vagliare gli eventuali profili di illegittimità di una legge. Il sindaco, ad esempio, che in quanto ufficiale di governo è responsabile dell’anagrafe, ben potrebbe attuare la legge di cui si sospetta l’illegittimità costituzionale e, una volta che il destinatario del provvedimento di diniego dell’iscrizione all’anagrafe (richiedente asilo) abbia presentato ricorso al giudice, all’interno di quel processo, potrà essere sollevata la questione di costituzionalità davanti alla Corte. Il sindaco, inoltre, potrebbe sospendere le determinazioni sulle richieste di iscrizione anagrafica e attivare un giudizio davanti a un giudice civile chiedendo di accertare se ha l’obbligo di rifiutare l’iscrizione o meno, sollevando la questione di costituzionalità.
Ci sono altri punti nel decreto sulla gestione dei migranti che le suscitano perplessità?
Direi la disciplina sulla revoca della cittadinanza prevista dall’articolo 14 del decreto sicurezza. Lo straniero che abbia acquisito la cittadinanza per residenza legale fino alla maggiore età, se nato in Italia, matrimonio o concessione di legge, la perderà se condannato in via definitiva per alcuni gravi delitti. È vero che l’acquisto della cittadinanza da parte dello straniero non è un diritto fondamentale (lo ha affermato la stessa Corte costituzionale), ma è altrettanto vero che lo straniero, una volta acquisita la cittadinanza italiana, è cittadino al pari degli altri, indipendentemente dalle sue modalità d’acquisto. Ne deriva un probabile contrasto con il principio di uguaglianza e il potenziale mancato rispetto della Convenzione Onu sulla riduzione dei casi di apolidia del 1961 ratificata dall’Italia nel 2015. Anche la misura che sospende la domanda di protezione internazionale in caso di sottoposizione a procedimento penale (articolo 10 del decreto) fa pensare al mancato rispetto del principio di presunzione di non colpevolezza previsto dalla nostra Costituzione. C’è, inoltre, un’estensione della detenzione amministrativa praticata presso i centri di permanenza e di rimpatrio da 90 a 180 giorni (articolo 2 del decreto): si tratta di una misura che incide sulla libertà personale quale principio affermato dall’articolo 13 della nostra Costituzione, per la cui garanzia è previsto un regime di riserva di legge e di giurisdizione. Una questione aperta da molto tempo e per la quale il legislatore ha perso un’altra occasione.
(Marco Biscella)